In questi giorni sta girando molto, proprio quasi quanto il fenomeno stesso della #10yearschallenge, l’idea che questa sorta di gioco non sia un semplice modo per condividere (ancora una volta) qualcosa che ci riguardi, ma che abbia dei secondi fini.
Semplificando, l’idea che sta passando è che questa “10yearschallenge” possa essere quasi assimilata ad un “complotto” ordito da Facebook per poter avere un grosso quantitativo di nostre foto (del prima e del dopo) utili per attività di riconoscimento facciale, machine learning et similia. Tali attività (così come le altre informazioni su di noi che giornalmente cediamo ai social network, ed al mondo del web più in generale) consentirebbero di profilarci (vedi il caso di Cambridge Analytica) e di potenziare, appunto, gli strumenti di riconoscimento facciale per diversi scopi.
Per carità il tema della privacy è certamente delicato e l’utilizzo e la gestione che si fa (e si farà) dei nostri dati è, e deve essere sempre, oggetto di dibattito. Ma credo che in questo caso non si possa gridare allo scandalo.
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Credo che da tempo abbiamo abdicato alla “riservatezza” per poter ricevere servizi in cambio. Non serve indignarsi o giocare a fare i complottisti.
Se il gioco non ci piace, basta non giocare. Se non vogliamo far conoscere qualcosa di noi, basta non pubblicarlo. Non è difficile. E credo che sia ormai cosa nota a tutti.
O, almeno, lo spero.