Nelle sale italiane resiste l’ultimo film di Paolo Genovese, il regista che con la sua commedia corale “Perfetti sconosciuti”, si è guadagnato il David di Donatello 2016 come Miglior film e numerosi altri premi.
Di genere drammatico la sua ultima opera “The Place”, liberamente ispirato alla serie tv americana, “The Booth at the End”, del 2010.
Almeno 5 sono i validi motivi per cui non perdere questo film:
- Innanzitutto, la storia, fondamentale per un film di successo. “The Place” racconta di vite intrecciate e di un uomo che le ascolta tutte, seduto sempre allo stesso tavolo dello stesso locale, il “The Place”, “il luogo”, come ad indicare quel preciso posto dentro di noi dove desideriamo le cose. Il locale (che nella realtà è il “Sacco Bistrot” a Roma) vede questo susseguirsi di personaggi che siedono di fronte a quest’uomo senza nome, l’attore Valerio Mastandrea, raccontando i loro desideri più profondi, talvolta superficiali, altre volte indispensabili; desiderio esaudito solo in cambio di una precisa azione svolta e così l’uomo senza nome apre la sua agenda e quasi in una sorta di legge karmica, comunica freddamente questa necessaria azione da svolgere, non sempre morale;
- Il cast corale, composto da: Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Vittoria Puccini, Alba Rohrwacher. Alessandro Borghi, Giulia Lazzarini, Vinicio Marchioni, Rocco Papaleo, Silvia D’Amico e Silvio Muccino. Attori premiati e navigati affiancati da attori che hanno cominciato questa carriera da meno tempo, ma che in questo film danno una forte dimostrazione della loro bravura, come Alessandro Borghi, che interpreta un ragazzo non vedente. Tutto il cast è abilmente diretto dal regista, che film dopo film, si specializza nel mostrare i numerosi lati dell’animo umano;
- Terzo motivo: Valerio Mastandrea. Sì lo so, fa già parte del secondo motivo, ma richiede una motivazione tutta sua. L’attore romano, che già in passato ha regalato performance degne di nota, in questo film raggiunge l’apice della sua bravura; il suo atteggiamento schivo, lapidario e distaccato conferisce al film l’atmosfera adatta a far crescere sempre più la tensione narrativa, fino ad arrivare a chiedersi fin dove l’essere umano sia capace di spingersi per raggiungere i suoi scopi. Se con “Perfetti sconosciuti” Mastandrea sfiorò il Davide di Donatello come Miglior attore protagonista, portando a casa solo la nomination, con questa prova attoriale deve guadagnarsi l’ambita statuetta;
- L’unicità di questa pellicola: Genovese migliora il suo modo di fare cinema di anno in anno, film dopo film. La sua professionalità e la sua poetica migliorano di pari passo con la crescita del cinema italiano. Da commedie come “Questa notte è ancora nostra” e “Immaturi” sembrano passati secoli; la crescita del regista romano, risente del successo di cui, finalmente e degnamente, il nostro cinema si sta riappropriando, anche all’estero (vedi Sorrentino e Virzì). Da “Una famiglia perfetta” Genovese continua ad ambientare i suoi film in un unico luogo, utilizzando un mix sempre più efficace di attori, studiando e raccontando tutte le sfumature dell’animo umano e se in “Perfetti sconosciuti” mostrava il lato oscuro degli altri, in questa ultima pellicola rivela quello di ognuno di noi, svelato tramite l’uomo misterioso con l’agenda, che può essere dio, il diavolo o persino la nostra coscienza;
- Ultimo motivo è l’autoanalisi: seguiamo le vicende di queste persone alla ricerca della propria felicità, pronte a tutto pur di raggiungerla, ma tutto questo lo vediamo (e lo viviamo) con una certa distanza, quasi non volendo avere niente in comune con questi personaggi; i rumori del locale che fanno da sottofondo, le loro azioni, spesso immorali, che non vengono mai mostrate, la cameriera (Sabrina Ferilli) che sembra non capire mai cosa stia accadendo sotto i suoi occhi, tutto questo esprime il nostro desiderio di sentirci estranei alle loro vicende, la volontà di non prenderci la responsabilità di ciò che vediamo, per paura di porsi inquietanti domande a cui sarebbe difficile trovare risposte.
Questo film ci “costringe” a guardare dentro di noi, ma a farlo sul serio, questa “specie di psicologo”, come la cameriera definisce il personaggio di Mastandrea, dalla sua agenda (simile al cellulare di “Perfetti sconosciuti”) tira fuori ciò che vorremmo tenere sempre ben chiuso nelle pagine del diario segreto della nostra vita, perché, come recita una delle frasi più emblematiche del film, “C’è qualcosa di terribile in ognuno di noi. Chi non è costretto a scoprirlo è molto fortunato”.