Quello che si temeva, si è verificato. Quello che sembrava un caso emergenziale lontano da noi, oggi è diventato qualcosa con cui fare realmente i conti.
Nelle settimane passate abbiamo avuto modo di dibattere su come è nato e diffuso questo nuovo virus, sulle misure (più o meno corrette) prese dalla Cina per contenerne la propagazione, sulla conta degli infetti e dei decessi e sulle conseguenze economiche che, seppur sempre meno rilevanti della perdita di vite umane, rappresentano comunque un fattore non secondario e i cui effetti negativi si vedranno nei prossimi mesi. Ci siamo confrontati anche con le ormai immancabili teorie complottistiche e fake news, tipiche da social, che indicavano il Coronavirus come derivante da alcuni esperimenti segreti in laboratorio.
In questi giorni però il Coronavirus è arrivato sino da noi, certo era più o meno prevedibile che accadesse in un mondo globalizzato come il nostro e nel quale siamo potenzialmente tutti connessi, ma averci effettivamente a che fare è tutta un’altra cosa. Ed è stata una doccia fredda.
Letteralmente dalla sera alla mattina (20 e 21 febbraio), la nostra attenzione è passata da un qualcosa di assolutamente frivolo come il “Che succede” di Morgan e Bugo, a qualcosa a cui non eravamo assolutamente preparati. Forse più emotivamente che tecnicamente.
Il Coronavirus non riguardava più terre e popoli lontani, il Coronavirus era tra noi. Ma non tra noi inteso in tutt’Italia e isole comprese, quanto (almeno stando al momento in cui scrivo) in due zone limitate e circoscritte del Nord Italia (in Lombardia e Veneto) e qualche altro singolo caso in alcune aree del resto della penisola. E questo è giusto tenerlo sempre a mente.
A diventare virale, ben più del virus, è stata la paura, o meglio l’angoscia, del contagio.
Abbiamo assistito a scene da film come l’assalto incondizionato ai supermercati per fare incetta di beni di prima necessità, neanche fossimo in stato di guerra o corressimo il pericolo di un attacco nucleare. Lo abbiamo vissuto in prima persona (come il sottoscritto) o mediati da altri canali di comunicazione: un film nel film, ora come registi ora come spettatori.
La cronaca ci dice che l’amuchina è scambiata quasi a peso d’oro, che le mascherine sono diventate il nuovo gadget di culto e che la birra Corona, per una assurda associazione con il virus, ha subito dei danni di immagine e non solo. Tutti effetti dovuti ad una psicosi collettiva, derivante anche dalla cosiddetta infodemia.
Ci fregiamo con il dire che la nostra civiltà è evoluta, che siamo proiettati nel futuro e che anzi siamo in grado di plasmarlo a nostro piacimento. Ma evidentemente è solo una chimera (sì, ho avuto una grandissima fantasia ad usare il nome del virus di “Mission: Impossible II”).
Molto più probabilmente ad essere davvero evoluta è la tecnologia, non noi.
Le nuove tecnologie spesso ci hanno fatto sentire portatori di super poteri: pianifichiamo, organizziamo o risolviamo “problemi” in pochi click. Abbiamo la pretesa di “sconfiggere” la morte: le scoperte scientifiche ci fanno vivere più a lungo e meglio; siamo al limite del teletrasporto: ci svegliamo a Milano, facciamo un meeting a Londra e ceniamo a Parigi nella stessa giornata; abbiamo il dono dell’ubiquità: con una webcam possiamo essere presenti ovunque; e così via. Ma appunto è la tecnologia che fa il miracolo, non noi.
Noi siamo rimasti gli stessi di sempre: emotivi, istintivi e fragili. E pare che ce ne siamo dimenticati. Non appena ci siamo trovati di fronte a qualcosa di realmente imprevedibile abbiamo perso il controllo (certo non tutti). Abbiamo perso l’abitudine a fare i conti con l’imprevisto e con quello che non riusciamo a gestire rapidamente. E questo ci fa paura. Ci rende vulnerabili. Forse anche più che al virus stesso.
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Come ricorda Harari in “Homo Deus” oramai sono decenni che, almeno nel mondo occidentale, abbiamo debellato malattie che nei secoli scorsi hanno causato milioni di morti, che non dobbiamo più preoccuparci di reperire viveri e che non abbiamo allontanato lo spettro della guerra. E tutto questo ovviamente è un bene.
Ritorno alla sobrietà
È indubbio che essere stati esposti ad una sovrabbondanza informativa fatta di titoli di giornali violenti e apocalittici, di trasmissioni no-stop dove piuttosto che informare (compito primario e nobile del giornalismo) si romanzano le notizie o si insegna a lavare bene le mani (cosa?!?), di titoli acchiappa click e di fake news, non ha aiutato le persone a ben orientarsi ed a capire davvero cosa sta succedendo.
È indubbio che aver assistito a dichiarazioni contrastanti da parte di tecnici affermati ha destabilizzato le persone che, in cerca di informazioni scientifiche e corrette, letteralmente non sapeva a chi credere.
È indubbio che essere spettatori del solito teatrino della politica, di comunicazioni e prese di posizione istituzionali divergenti o maldestre e di tentativi opportunismo (per non chiamarlo sciacallaggio), ha minato ancora di più la fiducia in chi ci governa. (Attenzione, gestire una situazione come quella attuale certo non è compito semplice, ma si poteva avere quanto meno più coesione).
Prima o poi questa epidemia passerà e prima o poi tutto tornerà alla normalità. Se c’è una cosa che mi piacerebbe diventasse virale sono l’etica del giornalismo, la misura delle dichiarazioni e il senso di responsabilità della politica. Non so se questo avverrà o se come al solito risulterà vero il vecchio adagio “passato il santo, passata la festa”.
Visto quanto sta accadendo, se dovessi giocarmi un euro, propenderei per la seconda opzione. E questa si dimostrerebbe, ancora una volta, l’ennesima occasione persa.
Ivan Zorico
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