Dalla fine di gennaio una parola ha calamitato tutta l’attenzione mediatica ad un livello, forse, mai visto prima. Questa parola è “Coronavirus” o “Covid-19”, per chi ama i termini tecnici.
Sono giornalista dal 2008, iscritto all’Ordine dal 2011, e da quando, bene o male, ho fatto dell’informazione il mio lavoro, non avevo mai assistito ad una cosa come questa. I media, tutti i media, non solo quelli digitali, si sono fiondati sullo scoppio dell’epidemia di Coronavirus con una velocità, una foga ed una sovrabbondanza di pubblicazioni, dibattiti, interviste, grafici, e chi più ne ha più ne metta, che ricorda i paparazzi ritratti nella Dolce Vita di Fellini.
Questa sovrabbondanza di informazione e comunicazione ha portato l’OMS a resuscitare il neologismo “infodemia”, utilizzato per la prima volta in un articolo del Washington Post nel 2003 a firma di David J. Rothkopf.
Soprattutto in Italia, tanto per cambiare, l’informazione sembra aver fatto del suo peggio per diffondere paura, panico o quantomeno angoscia, inseguendo ad ogni costo la “notiziabilità” di ogni cosa legata all’epidemia di Coronavirus.
Eppure, per quanto l’informazione sembri “dopata” in questo mese, tanto da ricordare gli atleti dell’URSS degli anni ’80 del secolo scorso, che facevano incetta di medaglie a tutte le Olimpiadi, il fenomeno non è del tutto nuovo, e se ci concediamo il gusto ed il piacere della ricerca dei precedenti storici, le scoperte saranno diverse e tutte molto interessanti dal punto di vista mediatico, sociologico e psicologico.
Voglio citare solo due casi, uno successo durante la metà degli anni ’80, del quale ho un ricordo diretto perché l’ho vissuto, l’altro, forse il più emblematico, del 10 giugno 1981, del quale serbo un ricordo più confuso, dovuto alla mia giovane età, all’epoca avevo solo 8 anni.
Ma procediamo con ordine: è il 26 aprile del 1986, sono le ore 1:23:45 del mattino ed alla Centrale Nucleare V.I. Lenin, situata a 18 km da Chernobyl in Ucraina (all’epoca parte dell’Unione Sovietica) scoppia il reattore n°4. In seguito all’esplosione ed all’incendio che me consegue, si libera nell’aria una densa nube di materiale radioattivo che, piano piano, grazie a correnti atmosferiche favorevoli, raggiunge ampie zone dell’Europa orientale, ma arriva, seppur molto attenuata, anche in Germania, Svizzera, Austria, Balcani e perfino in Francia ed Italia.
Le similitudini con il caso del coronavirus sono tante, ma tre su tutte sono così simili da sembrare una sorta di vademecum non scritto della cattiva gestione delle crisi.
Innanzitutto ci fu anche in questo caso l’intenzione del governo di nascondere la notizia sul disastro nucleare, l’URSS aspettò due giorni per dare una notizia ufficiale dell’incidente e solo perché incalzata dai tecnici della centrale nucleare svedese di Forsmark, non troppo lontana da quella di Cernobyl, che avevano rilevato con i loro strumenti un’impennata dei valori radioattivi in quell’area.
Stessa cosa successa con il coronavirus, il governo di Pechino ha provato per almeno due settimane a tenere nascosta l’epidemia, convinto di poterla contenere.
Ma veniamo alle altre due similitudini, più specifiche per il nostro Paese. La prima fu che i media soprattutto televisivi (internet ancora non era quella di oggi) non parlarono di altro per settimane e mesi, mi ricordo che anche allora alcuni comuni decisero la chiusura per qualche giorno di alcune scuole, ed anche allora la paura e l’angoscia, che giornali e televisioni aiutarono a diffondere, attanagliarono la popolazione per molto tempo. Eravamo in piena “guerra fredda” ed il rischio nucleare era, allora, il più temuto dalla popolazione, non solo italiana.
Secondo, anche allora ci fu una corsa impazzita ai supermercati per acquistare beni di prima necessità, come pasta, olio, zucchero, caffè e latte a lunga conservazione, la domanda di questi prodotti crebbe in maniera esponenziale, tanto che la grande distribuzione e i produttori si trovarono nell’impossibilità di esaudire le innumerevoli richieste e gli scaffali dei negozi si svuotarono, e, come una profezia che si autoavvera, la paura di restare senza viveri e la presa d’assalto dei supermercati creò di fatto il problema dell’esaurimento dei prodotti, con il conseguente aumento dei prezzi e dei casi di speculazione.
Anche nel caso del coronavirus abbiamo assistito ad una cosa simile, anche se riferita a prodotti più specifici, come il caso dei gel disinfettanti all’Amuchina sta a dimostrare.
Ma davvero emblematico per capire la valanga di infodemia che ci ha travolto è il secondo caso storico, si tratta del famoso episodio dell’incidente di Vermicino che coinvolse il piccolo Alfredo Rampi di soli 6 anni, della sua caduta in un pozzo e dei tentativi durati più di tre giorni di salvarlo. Un caso così esemplare per la nostra storia e per quella dei nostri media da essere studiato nelle facoltà di comunicazione e sociologia.
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La storia del piccolo Alfredo, che giocando cade in un pozzo, è tutto sommato banale, ma il circo mediatico che si costruì intorno alla vicenda fu il primo della storia italiana. La Rai, che fino ad allora aveva utilizzato le dirette solo per le competizioni sportive, realizzò nelle ultime 18 ore di vita del bambino la prima diretta televisiva per fatti di cronaca a reti unificate, che incollò davanti ai teleschermi 21 milioni di Italiani, come non erano riusciti a fare né i Mondiali di Calcio, né il Festival di Sanremo.
All’epoca si coniò il termine di “tv del dolore”, che tanta fortuna avrebbe avuto nei palinsesti del futuro televisivo italiano. Per molti autori e studiosi della comunicazione si trattò di un caso ante litteram di reality show, come dichiarò il giornalista Piero Badaloni, all’epoca conduttore del TG1: “Era diventato un reality show terrificante”.
Il piccolo Alfredino Rampi morirà in diretta nazionale. Il filmato delle ultime 18 ore diventa, probabilmente, quello più visto della storia italiana, farà letteralmente scuola, anche se rappresenta una pessima pagina di giornalismo nostrano. Il fatto avrà una profonda influenza culturale, con tanti documentari, saggi e romanzi dedicati al caso di Alfredino. Ma la nostra stampa, la nostra televisione ed i nostri giornalisti dimostreranno ancora nei tempi a venire di non aver imparato nulla.
Se per l’epidemia di coronavirus c’era poco o nulla che si poteva fare, per l’infodemia il giornalismo italiano poteva fare molto di più, per evitare lo scoppio di psicosi e angosce che ci hanno portato allo stato attuale delle cose. Credo che chi faccia informazione abbia il dovere di darsi un codice di condotta etico, che lo faccia desistere dall’inseguire lo scoop a tutti i costi, per tentare di fare la cosa giusta. Si dovrebbe scrivere, filmare, fotografare per informare il cittadino e non per allarmarlo, e se questo ci farà perdere qualche like, ci farà diventare impopolari, pazienza, il senso del dovere e l’etica sono attributi fondamentali per chi fa informazione.
Voglio chiudere questo editoriale dedicato al Coronavirus con una nota positiva e allo stesso tempo curiosa: il tanto demonizzato web è forse stato meglio dei suoi padri e madri (stampa e televisione) in quest’occasione. È vero che, come al solito, ha diffuso meglio di tutti ed in maniera veloce e capillare le ansie sul virus, ma, ad un certo punto, ha sviluppato degli anticorpi propri, cominciando a produrre meme e video che cercassero di esorcizzare la paura sul virus strappandoci una risata.
Noi sappiamo però che l’ironia è una forma eccelsa e raffinata di comunicazione e che veicola più significati di quelli immediatamente percepibili. Voglio lasciarvi con uno fra i tanti video che stanno impazzando sui social e che trovo non solo divertentissimo e geniale, ma anche estremamente dissacrante, e Dio sa quanto in questo particolare momento se ne senta il bisogno.
Gustatevelo e dopo immergetevi nella lettura dei nostri articoli, vi dico subito che non troverete i soliti “pezzi” acchiappa like ma approfondimenti seri e documentati sul tema “Virale” dal nostro particolare punto di vista, che dimostrate di apprezzare sempre di più.
Noi ce la stiamo mettendo tutta per darvi un mensile di qualità e lo facciamo esattamente da 70 numeri.
Quindi, buona lettura a voi e buon compleanno a noi di Smart Marketing.
Raffaello Castellano
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