Una affermazione che ha suscitato molti dissensi sulla questione coronavirus è quella del professor Alberto Zangrillo, Primario anestesista del S. Raffaele di Milano, che ha ribadito in più di una intervista che il virus, responsabile dell’epidemia attualmente in corso in tutto il mondo, sarebbe “clinicamente inesistente” ribadendo, tuttavia, che non è scomparso il virus ma la sua manifestazione clinica.
Questo ci impone alcune riflessioni legate a quanto detto sia sotto l’aspetto comunicativo sia sotto l’aspetto tecnico. Di questo ne parlo con il professor Francesco Galassi paleopatologo della Flinders University e autore del saggio “Un mondo senza vaccini, la vera storia”.
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Domanda: Per un addetto ai lavori, o meglio chi si occupa di clinica sa perfettamente che esiste una differenza tra infezione e manifestazione clinica della stessa. Ma affermare ad un vasto pubblico di non addetti ai lavori che non c’è un rischio oggettivo potrebbe far passare un messaggio completamente scorretto come pare sia successo. Se la maggior parte delle persone ha compreso che davvero il virus sia scomparso e non la sua espressione clinica, appare ovvio che c’è stata una comunicazione non proprio soddisfacente. Lei che ne pensa?
Risposta: Penso che il professore Zangrillo intendesse dire che nella sua casistica e in quella di colleghi con cui è in contatto le manifestazioni più gravi del morbo siano fortemente diminuite, in particolare in riferimento agli ingressi in terapia intensiva. La modalità comunicativa forse non è stata delle più felici, giacché, come lei stesso ha sottolineato, pare che molti abbia compreso che è il virus ad essere scomparso. Come sottolineato da una moltitudine di studiosi internali, la situazione attuale non può essere definita come una di “scampato pericolo”. Occorre prestare grande attenzione e non commettere errori. Ad ogni modo, avendo letto una successiva intervista a mezzo stampa del succitato prof. Zangrillo, credo che alcune dichiarazioni siano state ricalibrate e che l’accademico in questione abbia rimarcato l’importanza della prudenza e della cautela. Ormai è inutile addentrarsi in polemiche e dietrologie, perché finiscono per avvelenare il dibattito fra colleghi e per ridare fiato ai complottisti più radicali.
Domanda: Al di là della comunicazione, la questione legata alla manifestazione clinica ridotta del virus sta davvero in questi termini? Ci sono persone che sono ancora ricoverate, oppure anche se stanno assumendo le cure presso il loro domicilio hanno tuttavia sintomi significativi sovrapponibili ad una polmonite. Quindi dire allo stato attuale “clinicamente inesistente” ha davvero un senso?
Risposta: Credo che una modificazione nella manifestazione clinica della malattia sia in parte apprezzabile quale risultato dell’efficacia del lockdown e della migliorata gestione terapeutica dei pazienti. Ovviamente un conto è affrontare un nemico interamente nuovo, un altro è averne fatta esperienza. Invito tutti ad una maggiore cautela quando si fanno certe dichiarazioni e mi associo alle posizioni di quegli scienziati che sottolineano come la dimensione clinica di questa malattia sia ancora degna della massima attenzione, di certo NON qualcosa di “inesistente”.
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Upgrade rappresenta l’ultimo elemento di un racconto che parte a Febbraio 2020. In questi mesi abbiamo raccontato cosa stava succedendo (Virale), ci siamo domandati come la pandemia avrebbe cambiato noi stessi e l’economia (Tutto andrà bene(?)), e abbiamo offerto soluzioni (Reset). Con questo numero abbiamo voluto fare un passo in più: immaginare un domani diverso, anche attraverso esperienze concrete.
Domanda: Sotto l’aspetto storico come si comporta una pandemia come quella che stiamo attualmente vivendo? Alcuni virologi parlano di possibile mutazione, anche se non abbiamo ancora prove che ci sia davvero. Lei cosa può dirci in merito?
Risposta: La mutazione in senso di una perdita di aggressività e patogenicità del virus andrà dimostrata in laboratorio. Al momento non vi è evidenza di una siffatta modificazione, quindi si può solo ipotizzare un futuro adattamento del virus alla nostra specie in una forma meno pericolosa per la nostra salute. Si tratta, tuttavia, solo di ipotesi. Non è facile fare paragoni con pandemie del passato poiché si trattava di malattia causate da agenti diversi e soprattutto manifestantesi in condizioni sociali, ambientali e mediche troppo diverse dalle nostre. Se un raffronto va proprio fatto, questo va fatto con malattie affini, cugine di COVID-19, come la SARS e la MERS. Della prima non si registrano casi a partire dal 2004, anche se non è escluso che il patogeno circoli ancora a livello animale e possa un giorno ripresentarsi. La seconda, contrariamente a quanto è stato detto da alcuni, non è mai scomparsa e nel mese di marzo si è presentata in Arabia. Non è semplice fare previsioni ora su di una possibile scomparsa di COVID-19, a mio avviso speculazioni senza alcun fondamento.
Domanda: Si afferma che il virus si adatti e che diventi meno aggressivo per poter continuare a vivere. Ma questo può davvero accadere nell’arco di così pochi mesi?
Risposta: L’adattamento di un patogeno ad una specie è funzionale alla sua capacità di moltiplicazione. Si intuisce come un patogeno troppo aggressivo e letale uccida troppo velocemente il proprio ospite, perdendo quindi l’opportunità di espandersi. Un caso significativo è quello del virus ebola, così letale ma allo stesso tempo geograficamente limitato. Ripeto, si può ragionare di adattamenti di quel genere di SARS-CoV-2 su base teorico-speculativa, ma senza la prova molecolare non si può andare lontano.
Scopri il Sonno della Ragione
In questa rubrica parleremo, di volta in volta, di un argomento “caldo” della pseudoscienza, cercando di porre l’accento sui fatti.
Domanda: Ci sono evidenze che il virus stia rallentando la sua corsa, ma secondo lei questo è dovuto ad un fattore intrinseco al virus che sta da solo perdendo potenza o è davvero il fattore umano (contenimento, distanza sociale) che sta facendo sì che ci si infetti di meno?
Risposta: Penso la seconda opzione sia la più realistica. Si è irrisa la quarantena per la sua antichità (già ideata nel 1377 a Ragusa in Dalmazia) e la si è definita qualcosa di inutile o grottesco. La si sarebbe dovuta applicare invece ancora prima. Per quanto “dolorosa”, questa forma di prevenzione non farmacologica è fondamentale perché impedisce la circolazione dei patogeni abolendo il contatto interumano. Il fatto che qualcosa sia vetusto non implica necessariamente che sia da buttare.
Domanda: In quale fase potremmo dire di essere davvero fuori? Può farci qualche esempio storico significativo per meglio comprendere come funziona una epidemia e come questa si arresti?
Risposta: Saremo fuori dall’incubo quando il numero di nuovi casi sarà “trascurabile” e la diffusione del patogeno sarà limitata e sotto controllo. Più che dichiarazioni televisive ad effetto occorrerà uno statement ufficiale dell’OMS, supportato da evidenze inoppugnabili. Il problema COVID-19 caratterizzerà il 2020, mentre l’auspicio è quello di esserne liberati per il 2021, anche se la gestione del problema è diversa da nazione a nazione e la mobilità dei giorni nostri potrebbe portare a nuove diffusioni del virus. In passato le epidemie venivano dichiarate concluse o per scelta politica o dinanzi ad una diminuzione macroscopicamente apprezzabile dei contagi e dei decessi. La fine dell’epidemia politica non coincide però sempre con quella dell’epidemia reale e alcune scelte sono giustificate da un calcolo del rischio e dalla necessità di evitare disastri economici e rivolte popolari. Ne usciremo, dobbiamo essere fiduciosi, ma alle volte la fretta può essere cattiva consigliera.
Grazie professor Galassi.
Francesco Maria Galassi, medico e paleopatologo, originario di Santarcangelo (Rimini).
Nel 2017 è stato inserito dalla rivista americana Forbes nella lista dei 30 scienziati under 30 più influenti in Europa.
Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche a 31 anni è inoltre un divulgatore scientifico e socio fondatore del Patto Trasversale per la Scienza.
E’ professore associato presso la Flinders University (Australia) e direttore del FAPAB Research Center di Avola, in provincia di Siracusa.
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