Se ogni festival è una sfida al presente e al futuro del cinema, la sfida che il XXI Festival del Cinema Europeo di Lecce si appresta ad affrontare in questo difficilissimo 2020 è giocata nel segno della resistenza e della fiducia. Ci ritroviamo a novembre, lontani dalla nostra tradizionale collocazione stagionale, per un’edizione alla quale stiamo lavorando da oltre un anno. Un’edizione che il difficilissimo momento che sta segnando il nostro Paese e il mondo intero in ragione della pandemia ha trasformato in un atto di fiducia nella possibilità del cinema di esistere e di resistere, nonostante le avversità e nonostante le priorità dettate dall’emergenza.
Così inaugurava la 21esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, il suo Direttore Artistico, dott. Alberto La Monica, pochi giorni prima che il DPCM di fine ottobre, in materia di contenimento della pandemia del Covid-19, ponesse un “nuovo” terribile freno soprattutto al comparto culturale italiano. Tutte le attività culturali, cinematografiche e teatrali dovettero fermarsi e lo sono tutt’ora, causando un tremendo oblìo al bisogno di cultura, di un Paese che dovrebbe vivere di questo. Alla sua apertura, almeno fino al nuovo DPCM dello scorso 6 novembre, il Festival del Cinema Europeo, si è erto come l’ultimo baluardo della cultura prima dell’istituzione delle zone rosse, arancioni e gialle e dunque prima dell’inizio ufficiale del semi-lockdown. Già perché le attività museali, nel lasso di tempo tra il DPCM di fine ottobre e quello del 6 novembre, sono rimaste attive e la Mostra fotografica dedicata al grandissimo Aldo Fabrizi nel trentennale della sua scomparsa, rimane, al momento e ahimè chissà per quanto, l’ultimissima forma d’arte e di cultura in presenza.
Questo strepitoso omaggio, curato con amorevole cura e passione, dalla nipote del grande attore e autore romano, Cielo Pessione Fabrizi, si è svolto nei saloni austeri, ma nello stesso tempo regali del Castello Carlo V di Lecce. Una Mostra originale nella sua struttura e nel suo significato, perché è stata dedicata non solo alla figura di un attore che ha dato così tanto lustro a Roma, al cinema e all’Italia intera; ma alla sua figura, mai troppo celebrata di autore. Infatti anche la retrospettiva collegata alla Mostra, è stata dedicata ai suoi 9 film come regista, utilissimi nello scoprire ancora di più, il genio di un grande uomo dello spettacolo italiano.
E così addentrarsi nelle sale del Castello, è stato come fare un tuffo nella “vecchia Roma” che ormai non esiste più; nella “vecchia Roma” che si respira nei film di Aldo Fabrizi, che si respira nei suoi sonetti e che si respira semplicemente sentendo la sua voce. Locandine, fotobuste e immagini suggestive dai set dei suoi film, da quelli ancora di respiro “neorealista” di Emigrantes (1948) e Benvenuto, Reverendo! (1949); alla meravigliosa trilogia della Famiglia Passaguai (La Famiglia Passaguai, La Famiglia Passaguai fa fortuna, Papà diventa mamma- 1951/52); passando per film poco celebrati come Una di quelle (1953) e Marsina stretta (1954), episodio del film corale Questa è la vita; terminando con due gioiellini misconosciuti e recentemente restaurati come Hanno rubato un tram (1954) e Il maestro (1957).
La retrospettiva, che sarebbe stata in presenza, si è trasformata in modalità digitale, così come tutte le altre attività del Festival; mentre la magia della Mostra è riuscita a sopravvivere intatta, alle catastrofi sanitarie provenienti dal mondo. Alcune chicche, va qui accennato, hanno contribuito a rendere la Mostra, straordinaria dal punto di vista qualitativo, come ad esempio il vestito da Reverendo di Benvenuto, Reverendo, o ancora i baffi utilizzati da Fabrizi in Marsina stretta, o alcuni copioni originali, ingialliti ed invecchiati dal tempo, ma che conservano ancora tutta la loro magia.
Tornando al Festival, nella sua interezza, dobbiamo accennare, che nonostante l’ovvia versione online, esso è stato un successo, con oltre 15.000 visualizzazioni ed un’utenza proveniente da tutti gli angoli del mondo. In tale modalità, sono state quindi preservate alcune attività di livello mondiale, come la proiezione di tutta la filmografia completa da regista di Aldo Fabrizi e gli incontri con Olivier Assayas e Dario Argento. Un palco virtuale di ospiti, incontri e anteprime mondiali, ricchissimo di eventi, fino all’attesissima cerimonia di premiazione del 7 novembre.
Il premio più importante del Festival, ovvero l’Ulivo d’oro al miglior film, è stato assegnato al francese Twelwe Thousand, di Nadége Trebal. Una splendida storia d’amore resa difficile da una situazione economica complessa, che porta il protagonista ad inventarsi di volta in volta un lavoro, per assicurare a sé e alla sua donna un futuro migliore. Un film che fa partecipare attivamente lo spettatore, alle ansie, alle angoscie ma anche alle gioie del suo protagonista e che mette alla luce, come se fossimo in un “nuovo” neorealismo 2.0, una delle problematiche più rilevanti di una coppia felice ai tempi d’oggi, ovvero la stabilità economica.
Tra gli altri premi di livello, vanno citati almeno il Premio SNGCI (per intenderci, il Sindacato che assegna i Nastri d’Argento) al miglior attore europeo, andato a Corinna Harfouch per Lara, di Jan-Ole Gerster; il Premio FIPRESCI a La belle indifference di Kivanc Sezer; e il Premio Mario Verdone, assegnato ogni anno dalla famiglia Verdone (Carlo, Luca e Silvia Verdone) a un giovane autore italiano (under 40), che ha visto trionfare Phaim Bhuyan e il suo celebratissimo Bangla, già vincitore del Globo d’oro e del David di Donatello come miglior opera prima e del Nastro d’Argento come miglior commedia. Lo stesso Carlo Verdone, in collegamento da casa, ha lanciato un appello accorato: «Quello che mi fa più paura, è che a un certo punto qualche esercente molli e chiuda la sala. Se cominciano a chiudere ulteriori sale sarebbe un autentico disastro per il cinema italiano».
Un monito, dunque, e in sé anche una speranza, che una ripartenza, che una rinascita culturale possano essere possibili, auspicabilmente in tempi brevi. Perché siamo in emergenza e stringiamo i denti, ma senza cultura si può solo sopravvivere, ma non vivere. Già perché, si, si può sopravvivere, ma a che prezzo? Al prezzo di crescere una mandria di giovani che ignorino le emozioni che la vista di un’opera d’arte può darti? E se si cresce senza questa emozione, in grado di sconvolgerti l’animo e il cuore, non si sarà neanche in grado di amare davvero. E’ come lo studio della matematica alle scuole superiori: “A che serve?”, ognuno di noi si è chiesto, “Studiare gli integrali e le funzioni?”. Eppure sono servite a sviluppare un ragionamento logico.
Ecco questa è l’educazione all’Arte, ovvero saper sviluppare le emozioni, l’amore, la passione che smuovono l’anima. Per questo senza cultura, senza arte, senza cinema, il nostro Paese non andrà da nessuna parte, né culturalmente, né socialmente. Per questo l’Arte è importante, per questo l’Arte è un bene essenziale. Per questo, al termine dell’emergenza, se si potenzierà la sanità, dovrà essere potenziata, finalmente l’educazione alla cultura. Perché curare e tutelare la salute è essenziale, esattamente come è essenziale curare e tutelare le emozioni e i sentimenti.
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