Il passaparola è da sempre la più alta forma di pubblicità e promozione. Tutte le campagne di marketing puntano, a ragione, a creare questo passaggio di interesse da una persona ad un’altra. O almeno dovrebbero.
Tanto più un’esperienza ci avrà colpito favorevolmente o tanto più un prodotto o un servizio avrà soddisfatto le nostre esigenze, tanto più saremo spinti a parlarne positivamente. Va da sé che esiste il rovescio della medaglia: il passaparola è fortissimo, forse anche di più, anche nel caso in cui abbiamo vissuto una esperienza negativa.
Siamo naturalmente portati a trasmettere informazioni verso il gruppo di persone a noi contiguo: lo facciamo perché riteniamo giusto consigliarci l’un l’altro. Non è un caso che i social network utilizzino proprio questo nostro innato comportamento favorendone l’esecuzione: i “mi piace”, i “commenta” o i “condividi”, altro non sono che la trasposizione digitale del passaparola come l’abbiamo sempre conosciuto.
Rispetto a 15 anni fa è evidente che l’eco e la portata del passaparola hanno avuto un boost non indifferente. Sembra quasi banale dirlo, ma da quando i social network hanno fatto la loro comparsa nelle nostre vite, il passaparola ha elevato esponenzialmente il suo valore. Non dichiariamo più, come facevamo sino a pochi anni fa, il nostro interesse solo ad una decina di persone, magari in ordine sparso e con tempi differenti; con un click tutte le persone con cui siamo in contatto, nello stesso momento, possono potenzialmente conoscere quello che pensiamo verso un dato brand, prodotto o servizio. A loro volta i nostri amici possono amplificare il nostro messaggio, interagendo con esso ed estendendolo alla loro cerchia di conoscenti. E c’è di più. Il nostro parere può influenzare anche chi non ci conosce o con cui non abbiamo alcuna relazione: Tripadvisor docet.
Ma cosa scatena il passaparola?
Be’, gli innesti possono essere diversi, ma certamente siamo più portati a condividere esperienze uniche, che ci mostrano migliori, che dicono qualcosa di noi, nelle quali ci riconosciamo o ci sentiamo protagonisti (vista in versione negativa, sarà per i motivi opposti). In questo contesto si inserisce una particolare forma di marketing – lo street marketing – capace di far scattare automaticamente il nostro passaparola perché utilizza spazi e luoghi che solitamente hanno un’identità ben diversa. Lo street marketing prende in prestito qualcosa di ordinario, lo rimescola e gli dà un significato diverso. Così una strada, un palazzo o una panchina dismettono i panni di luoghi comuni per trasformarsi in qualcosa d’altro, qualcosa di parlante e di cui parlare.
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In un mondo sempre più connesso e dove le persone sono sempre più assuefatte ai messaggi pubblicitari, lo street marketing può esprimere tutto il suo valore e dare ai brand una visibilità inaspettata, anche per mezzo delle piattaforme social.
Inaspettatamente una persona non si trova più a camminare per le strade del suo quartiere, ma vive un’esperienza. D’un tratto ci si può trovare all’interno di uno spot pubblicitario, come spettatore o come protagonista inconsapevole, o ancora può trovarsi ad ammirare un’opera d’arte, proprio lì dove prima c’era solo cemento. Già perché la magia dello street marketing – quella cioè che scatena la viralità (cfr. passaparola) – è proprio quella di sorprendere le persone.
Una volta compiuto questo artificio, il resto viene da sé. Saranno le stesse persone a diventare parte attiva della campagna di (street) marketing, ambasciatrici del brand di turno e da cassa di risonanza. Un breve video su Instagram o un post su Facebook e la potente macchina del passaparola si metterà velocemente in moto. Poi seguono i giornali locali, i blog e gli altri attori del settore: l’hype verso la campagna di street marketing, e per il brand, salirà. Il tutto con un budget spesso molto più contenuto rispetto a quello destinato alle campagne di comunicazione convenzionali.
È evidente che se eseguita bene i risultati sono formidabili. Ma attenzione al se, perché la storia del “purché se ne parli” non è sempre vera.
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