Dante Alighieri e la musica italiana a oltre 700 anni dalla sua morte.

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Dante Alighieri e la musica italiana a oltre 700 anni dalla sua morte.

Non esiste studente, in Italia, che non abbia incontrato, almeno una volta, nel suo percorso di studi, le opere e i versi di Dante Alighieri, il poeta che con la sua Divina Commedia cantò la morte, l’amore, l’espiazione e la redenzione fino alla beatitudine contribuendo a costruire quell’immaginario collettivo religioso basato su Paradiso, inferno e Purgatorio.

Dante Alighieri, considerato il padre della lingua italiana, ha ispirato ed ispira ancora, generazioni di pensatori ma, forse, pochi sanno che ha ispirato decine e decine di versi contagiando anche parecchi cantautori che hanno citato, dissacrato o esaltato la sua figura e tutto quello che rappresenta la sua poetica.

A oltre 700 anni dalla sua morte (che avvenne a Ravenna, nella notte tra il 13 ed il 14 settembre 1321), 701 per l’esattezza, vogliamo ricordarlo con le parole dei cantautori che a lui si sono ispirati.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita – Mi ritrovai a non aver capito” (“Siamo chi siamo”) canta Luciano Ligabue parafrasando il primo verso della Divina Commedia emblematico di ogni smarrimento, altri, come Francesco Gabbani, cita la celeberrima frase “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” nella sua “Tra le granite e le granate” sottolineando la differenza labile tra la Porta dell’Inferno dantesco ed una spiaggia affollata e arroventata, mentre Franco Battiato ci ricorda, nella sua canzone “Testamento”, che “Fatti non foste per viver come bruti – Ma per seguire virtude e conoscenza” ripetendo le parole che Dante mise in bocca ad Ulisse per ricordarci che la ricerca della conoscenza e della virtù non può, e non deve, avere limiti.

Ma i versi che sicuramente hanno ispirato più di tutti gli altri i cantautori, sono quelli legati a Paolo e Francesca che raccontano un amore proibito, folle e travolgente.

Chissà cosa avrebbe potuto pensare il sommo poeta potendo ascoltare i suoi versi rappati da Jovanotti nella sua “Serenata rap”: “Amor che a nullo amato amar perdona porco cane” con quell’imprecazione di troppo che li attualizza; forse, si sarebbe scandalizzato un po’ di più ascoltando le parole che gli riserva Fabrizio De Andrè ne “Al ballo mascherato” affermando che “Dante alla porta di Paolo e Francesca – Spia chi fa meglio di lui”, oppure, si sarebbe commosso ascoltando la canzone di Antonello Venditti “Ci vorrebbe un amico” in cui quello straziante “E se amor che a nulla ho amato – Amore, amore mio perdona” cerca di ricomporre un amore ormai finito.

Roberto Vecchioni racconta il suo “Alighieri” in una canzone e Angelo Branduardi mette in musica il Canto XI del Paradiso ma è Caparezza a dare smalto nuovo e reinterpretare l’XIII Canto dell’Inferno ridando voce a Filippo Argenti, acerrimo nemico di Dante che il poeta pone nel girone degli Iracondi.

Filippo Argenti reinterpretato da Caparezza in “Argenti vive”, canta la violenza che si contrappone all’arte dichiarando che “Non è vero che la lingua ferisce più della spada, è una cazzata – Cosa pensi tenga più a bada, rima baciata o mazza chiodata?” e affermando il valore dei più forti, della forza bruta sulla poesia, quella stessa poesia che però, l’ha reso immortale e vivo ancora oggi.

“Argenti vive” è una canzone complessa ed allo stesso tempo ironica che ci pone domande scomode: ha più potere l’arte capace di rendere immortale un personaggio che altrimenti sarebbe finito nel dimenticatoio della storia o la violenza di chi vuole affermare le sue ragioni? E l’arte, può diventare essa stessa cieca violenza quando tenta di far prevaricare le sue ragioni?

Caparezza ci insegna che il confine è labile e forse, Filippo Argenti e Dante Alighieri sono più simili di quanto non si voglia credere: l’uno percosse pubblicamente il sommo poeta, l’altro, lo condannò ad altrettanta violenza restituendone un racconto pieno di disprezzo e sdegno.

Noi, cronisti contemporanei restiamo incantati rileggendo le parole della Divina Commedia e riascoltando oggi, le canzoni che ne ispirò, sicuri, che l’arte resterà immortale, a dispetto della violenza che può essere solo estemporanea, condannata all’oblio e annegata in quella palude di fango, dove Dante pensò bene di far annegare l’iracondo Argenti.

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