Ho sempre pensato, prima ancora di essere stato un venditore per 7 anni, prima di essere diventato appassionato di cinema, prima di diventare esperto di marketing, che la pubblicità che girava in TV fosse non solo una cosa bella, ma anche importante.
Capivo, già da ragazzo, non so bene come, che quegli spot di 30 secondi o poco più avevano un fascino e raison d’etre che andava al di là della semplice promozione e vendita del prodotto pubblicizzato.
Poi, man mano che diventavo sempre più appassionato, ed esperto, di cinema, negli spot ho spesso ritrovato un gusto citazionista che, lungi dal vampirizzare i film a cui si ispiravano, erano delle geniali rivisitazioni e dei veri e propri omaggi alle sequenze memorabili delle opere originali.
Mentre scrivo questo editoriale ho in mente gli spot Levi’s della fine degli anni ‘90 ed inizio 2000 o, ancora meglio, le splendide campagne della Campari realizzate da registi famosi o che lo sarebbero diventati nell’immediato futuro.
Uno su tutti a titolo di esempio è il celebre spot “The Secret” della campagna Red Passion di Campari del 2005 del regista Tarsem Singh, che citava o meglio alludeva all’ultimo film di Stanley Kubrick “Eyes Wide Shut” del 1999.
Lo spot, che molti fra i lettori più grandi ricorderanno, era ambientato in un lussuoso albergo e vedeva protagonisti un ragazzo e una ragazza che si incontrano e si inseguono in un ambiente denso di fascino, caratterizzato da una dominante cromatica rossa e accentuato dalla splendida Masked Ball – Ballo in maschera, di Jocelyn Pook (la stessa della colonna sonora del film di Kubrick).
L’atmosfera di questo piccolo film era sospesa ed onirica, ammantata da un erotismo suggerito più che mostrato.
Scopri il nuovo numero: “L’Arte della Pubblicità”
L’obiettivo della pubblicità è sempre lo stesso: coinvolgere, persuadere, vendere. Il come lo si fa ed il perché lo si fa, però, tutta la differenza del mondo.
Ma continuiamo con la storia: la svolta arriva quando il ragazzo inseguendo la ragazza inavvertitamente le versa il contenuto del suo bicchiere (ovviamente Bitter Campari) sul vestito, e qui avviene qualcosa di inaspettato e spiazzante: la ragazza si spoglia del vestito inzuppato mostrando la sua vera identità di uomo e il ragazzo, per niente turbato, si spoglia e scioglie i capelli rivelando la sua identità di donna.
Il messaggio sembra duplice: da una parte si celebra quel glamuour–trans e seduttivo di grande impatto, abbastanza caratteristico degli spot Campari dell’epoca, dall’altro si celebra una passione ed un erotismo liberi da condizionamenti sociali e borghesi ed una bellezza caratterizzata dall’idea del mescolamento dei generi e delle identità sessuali molto in anticipo sui tempi, se consideriamo che siamo nel 2005 e le sensibilità sono ancora molto acerbe sulle tematiche dell’identità di genere.
Credo, senza paura di smentita, che il periodo d’oro della pubblicità televisiva, la sua Golden Age, sia grossomodo quello che va dall’inizio degli anni ‘80 all’inizio degli anni 2000, una golden age che in un certo senso rappresenta anche il canto del cigno del medium televisivo, fino ad allora quello privilegiato della pubblicità di grandi e piccoli brand.
Poi ci fu l’avvento di YouTube prima, dell’Iphone poi e della successiva affermazione dei social network, il tutto accaduto in meno di una decina d’anni, dal 2005 al 2015, rispettivamente la data del primo video caricato sul sito di video sharing più famoso al mondo (23 aprile 2005) e quella del raggiungimento di 1 Miliardo di utenti da parte di Facebook (24 Agosto 2015).
Da allora il web, Google e i social network hanno vampirizzato l’informazione e cambiato profondamente la maniera di fare marketing e pubblicità, causando la scomparsa di molti editori di quotidiani, di tante edicole ed erodendo in maniera significativa gli introiti pubblicitari di stampa e TV e per contro inventando di sana pianta nuove professioni e interi settori lavorativi.
Cosa potevano fare questi grandi player per tenere il passo con la pubblicità digitale?
La sfida si giocava e si gioca ancora su tanti fronti, ma di sicuro la sfida con la capillarità, la pertinenza e la specificità del messaggio pubblicitario offerto dai social network e da Google si poteva, e secondo me si può ancora, vincere sulla qualità del messaggio.
Quei 30 secondi della durata media di uno spot sono sia un terreno di sperimentazione sia di battaglia, per cercare di catturare l’attenzione dei consumatori. Attenzione che, lo sappiamo bene, è insieme ai dati, e forse più di essi, l’oro puro che tutti i grandi brand vogliono mettere nei loro caveau.
Lo stiamo vedendo anche in Italia da un paio di anni, con tutti quegli eventi, sportivi, musicali e culturali, che ancora vengono fruiti sui grandi schermi della TV.
In particolare ce ne siamo resi conto durante l’ultimo Festival di Sanremo che, con i giusti distinguo, è diventato con la gestione Amadeus il Super Bowl italiano. Un terreno privilegiato per i grandi brand per sperimentare e lanciare le loro nuove e più importanti campagne.
La qualità, dunque, sembra essere, almeno per ora, il posto dove la pubblicità televisiva può ancora esprimere la sua migliore performance, il tutto per cercare di tenere il passo con la pubblicità ed il marketing migrati sul web e sui social che sembrano, con l’avvento delle AI generative, destinati a cannibalizzare sempre più spazi e a intercettare sempre più risorse.
A noi utenti e consumatori resta la scelta di decidere se abitare uno o entrambi i mondi “reali” che attualmente coesistono, quello fisico e quello digitale.