Comunicare UP

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Diego Durante (15)

 

 

 

 

La possibilità di comunicare con l’ambiente circostante è connessa con lo sviluppo ed il benessere fisico ed emotivo di ogni persona. Questa premessa scontata ma comunque necessaria, richiama l’esigenza di porre particolare attenzione alla promozione di competenze comunicative nell’ambito di interventi educativi e riabilitativi rivolti a persone diversamente abili. Da ormai tanto tempo il tema è molto dibattuto: si pensi alle crociate sulle barriere architettoniche; su come l’integrazione sociale risulti a volte compromessa in alcuni settori della vita quotidiana; oppure all’annoso dibattito del termine da selezionare tra “disabile”, “handicappato”, “portatore di handicap” o “diversamente abile” in base agli interlocutori con cui ci troviamo a parlare. Ma non è questa la sede adatta per intavolare temi delicati che potrebbero scatenare polemiche. Piuttosto ci vogliamo concentrare sul concetto di comunicazione e integrazione nella società della persona con abilità diverse.

Anche i mass media hanno dedicato ultimamente in televisione una puntata del programma Hotel 6 Stelle, la docu-fiction prodotta da Rai3 e Magnolia in collaborazione con l’Associazione Italiana Persone Down (AIPD) e con il patrocinio del Segretariato Sociale Rai. Un appuntamento in cui sei ragazzi con disabilità hanno vissuto un’esperienza di lavoro, crescita personale ed autonomia, mettendosi alla prova, comunicando con gli altri e realizzando un proprio particolare progetto di vita.

Il dott. Donato Salfi, 59 anni, dirigente della Unità Operativa del Servizio d’Integrazione Sociale e Lavorativa della A.S.L. di Taranto, è stato uno dei primi psicologi sul territorio pugliese a promuovere l’integrazione e la comunicazione per il mondo della disabilità. Oltre il suo lavoro presso la ASL, nel 1983 – assieme ad un team di professionisti – fonda I.S.A.C. PRO, associazione no profit di promozione sociale con lo specifico intento di diffondere la cultura della prosocialità nella convinzione che “ciascuna persona possa esprimere la propria individualità nelle interazioni con l’altro o con il gruppo, traendo la propria autorealizzazione dall’essere consapevolmente per l’altro”. Lo abbiamo incontrato per capire meglio come si sviluppa questo progetto e quali sono le altre attività messe in piedi per diffondere una cultura della comunicazione nella disabilità.

 

Dott. Salfi, nella sua carriera professionale, si occupa di promuovere l’integrazione e la comunicazione nella società delle persone con disabilità attraverso seminari, corsi di formazione, attività teatrali, consulenze su software educativi. Da dove nasce questo interesse?

Avevo solo 12 anni quando nel 1968 ho visto il film di Stanley Kubrick ‘2001 Odissea nello spazio’ . Nel resto del mondo si andava preparando la più grande impennata della storia della comunicazione dentro la quale ancora oggi viviamo: dalle origini della storia dell’ uomo, proprio come ce l’ ha raccontata Kubrick, sino a quel momento, gli sviluppi della comunicazione e i cambiamenti da essa impressi nella storia dell’ umanità erano venuti avanti ad un ritmo esasperatamente lento: quanti secoli furono necessari per passare dal rotolo al libro? Da quel momento in poi, invece, la comunicazione è cresciuta (e continua a crescere) a un ritmo travolgente (vedi Salfi, Minelli e De Stefano, 2008, Dal graffito al satellite, ISACPro). Nonostante la mia giovane età, la visione delle prime scene del film che tutti conosciamo furono l’ occasione per me per capire che la comunicazione viene prima della parola, si realizza anche senza la parola, essa va oltre la parola e raggiunge lo scambio interpersonale nonostante la parola.

Ci sono bambini le cui caratteristiche rendono molto improbabile l’apprendimento del linguaggio verbale. Molti bambini autistici, ad esempio, hanno scarsa probabilità di imparare ad usare le parole per comunicare con gli altri e così i bambini con lesioni cerebrali gravi. In tutti questi  casi, indipendentemente dai motivi che danno origine alle difficoltà comunicative che, pure, possono essere diversi tra loro, si può ritenere che il linguaggio verbale sia troppo difficile per questi bambini.

Stanley Kubrick aveva evidenziato che, dal graffito al satellite, la storia della comunicazione umana aveva fatto passi da gigante, ma per me le scene di quegli ominidi che, per la prima volta, utilizzano con una funzione comunicativa gli stessi oggetti che hanno sempre avuto davanti, ebbero l’effetto di farmi capire che la comunicazione è un bisogno profondo, strutturale, connaturato all’ uomo e che nessuna patologia, nessuna minorazione, nessuna condizione di salute può sopprimere in nessun essere umano. Cosicché non ho saputo resistere alla spinta a ricercare tutte le soluzioni praticabili per ripristinare o generare nella persona con disabilità e, in particolare nelle persone con ritardo mentale o disturbi della relazione, la funzione comunicativa.

 

L’integrazione sociale e la comunicazione della persona con disabilità è un tema molto dibattuto. Quale è stata e quale è ad oggi la risposta dell’ I.S.A.C. PRO che la differenziano delle altre associazioni no profit? 

In realtà oggi abbiamo chiaro davanti a noi che le strade sono due e sono alternative e incompatibili tra loro: l’assistenzialismo custodialistico da una parte e lo sviluppo della vita indipendente della persona con disabilità nella Comunità dall’ altra.

Chi va per la prima strada parte dal presupposto – del tutto fallace, a mio modo di vedere! -che la persona con disabilità è (stabilmente e irreversibilmente) disabile nel suo complesso. Questo punto di vista ha generato quelli che io chiamerei ‘manicomi diffusi’. Basaglia aveva aperto i manicomi, (in questi mesi questa parabola si conclude con l’ apertura degli OPG-Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e l’ intento era quello di integrare nella società le persone che vi erano recluse. Eppure, la nostra organizzazione sociale è stata capace di tradire questo obiettivo inserendo le persone con disabilità in strutture dedicate che vanificano ogni ambizione di integrazione sociale.

ISACPro ha dato vita a Mediterraneo che è un Centro di Apprendimento della Vita Indipendente nella Comunità. I ricercatori di Mediterraneo si sono convinti che lo scarto, il debole, il fragile è il vero catalizzatore dei processi di attivazione di una Comunità, di un paese o di una città, nella quale ciascuno di noi vorrebbe vivere: infatti appare evidente che oggi tutti avvertiamo il bisogno di legami veri, di una Comunità alla quale appartenere e –contemporaneamente – soffriamo per la disgregazione della Comunità, causata da un esasperato individualismo, alimentato dall’ accelerazione competitiva che finisce col lasciare dietro di sè molte ‘vite scartate’. La piazza dell’ ipermercato è diventata il luogo di incontro di una massa crescente di persone e gli acquisti costituiscono gli elementi intorno ai quali costruire la propria identità, ma poi siamo angosciati dalla perdita di senso della vita, la Comunità è divenuta progressivamente più evanescente e le nostre relazioni sono sempre più ‘liquide’ (Bauman, 2003). Le relazioni interpersonali, tuttavia, quando sono rinnovate dalla dimensione della fraternità, promettono di diventare il terreno di coltura dentro cui sviluppare la risposta alla domanda di senso che oggi ci poniamo. Le relazioni, dunque, possono costituire quelle scintille che, finalmente, accendono una nuova luce sulle questioni della socialità. Queste relazioni promettono di decondizionarci dal determinismo fatalista (Magatti, 2008), aprono la speranza alle nostre città e alle Comunità che in esse vivono, perché ‘la città non sia più il luogo della paura, ma della fiducia’ (Bauman, 2005).

Il progetto “Mediterraneo” nasce dall’iniziativa di alcuni giovani professionisti che ha dato vita ad un modello di intervento che promuove l’autonomia personale, abitativa e sociale di giovani adulti con Ritardo Mentale, coniugando il rigore dell’ approccio cognitivo – comportamentale con il paradigma della prosocialità.

La persona con disabilità riceve interventi riabilitativi e integranti dai servizi scolastici e socio–sanitari sino alla maggiore età, ma vengono lasciati insoddisfatti i bisogni di indipendenza del giovane adulto. Nella migliore delle ipotesi la soluzione è una misura assistenziale che agisce egregiamente sul qui e ora perpetuando, tuttavia, la condizione di dipendenza dagli altri.

Il progetto Mediterraneo persegue lo scopo ambizioso, ma speriamo alla nostra portata, di modificare la considerazione della persona con disabilità, in un’ottica di empowerment, non più solo come mero fruitore di servizi, ma anche partecipante attivo della Comunità.

L’Assemblea delle Nazioni Unite, nel dicembre del 2006, ha approvato la Convenzione sui diritti delle persone disabili, ovvero “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. La Convenzione è stata formulata con lo scopo di “promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone disabili e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”. In questa prospettiva, quindi, le persone con disabilità devono conoscere quali siano i loro diritti e devono essere in condizione di esercitarli.

Il bisogno di vivere in autonomia è una necessità che appartiene ad ogni giovane adulto, il graduale svincolo dalla famiglia d’origine è un passo decisivo e fondamentale per la propria autodeterminazione. Questa esigenza è del tutto naturale e accettabile quando si parla di un giovane adulto, tanto che oggi ci meravigliamo del fenomeno contrario della cosiddetta posticipazione o adultescenza. Lo stesso diritto alla vita autonoma e indipendente deve essere garantito anche al giovane adulto con disabilità, eppure accettare questo e sostenerlo appare oggi ancora molto complicato. L’ ultimo rapporto dell’ Istat su “La Disabilità in Italia” (Solipaca, 2010) fa emergere infatti un forte bisogno di integrazione del disabile nel contesto della propria Comunità in relazione al suo bisogno di autodeterminazione ed indipendenza. Purtroppo è un atteggiamento ancora troppo diffuso quello di guardare la persona con disabilità come un essere sofferente, come il malato da curare o il debole da proteggere, come l’ eterno bambino in un corpo da adulto. Questa concezione ha trovato la sua declinazione nell’ investimento sui Centri Diurni quale unica prospettiva per quella fascia di popolazione con ritardo mentale over 18, ormai fuori dalla scuola dell’obbligo e dai circuiti abilitativi e riabilitativi. I Centri Diurni, così come sono stati concepiti dalla normativa nazionale e regionale dovrebbero favorire il processo di crescita e d’integrazione sociale delle persone disabili, ma in realtà, questi servizi non riescono ad andare oltre il mero assistenzialismo e custodialismo: l’ obiettivo rimane circoscritto alla ricerca del benessere dell’ utente ‘hic et nunc’, solo all’ interno della struttura in cui l’ intervento viene realizzato. La vita reale: l’ autodeterminazione, la vita di relazione, la socialità, il lavoro non vengono affatto influenzati da quanto la persona fa all’ interno della struttura.logo01lightbox

Spostare l’ attenzione dai bisogni ai diritti della persona sta determinando una eterogenesi dei fini stessi delle strutture e delle organizzazioni di modo che non siano più orientate a garantire il benessere della persona con ritardo mentale dentro lo spazio e durante il tempo della struttura, ma che siano capaci di implementare processi di sviluppo delle competenze necessarie per provvedere alla cura di sè, per vivere in un’ abitazione, per partecipare alla vita della Comunità e per lavorare.

Focalizzare i diritti della persona con ritardo mentale trascina con sé l’ affermazione dei doveri di cittadinanza che mirano a rendere il disabile non più solo fruitore di servizi, ma anche partecipante attivo nella costruzione dei legami della Comunità. Si esce dai canoni del “qui ed ora” per entrare in quelli maggiormente rispettosi della persona che vengono definiti “illuc et postquam”, ovvero un percorso che ha la consapevolezza di fare qui ed ora un intervento il cui obiettivo è situato ‘fuori di qui’ e ‘dopo di adesso’ ovvero: al di fuori dalla struttura in cui viene erogato il servizio e quando l’ attività è conclusa, un obiettivo,  quindi, che è collocato nella vita reale che viene tutta coinvolta nell’ intero processo di apprendimento continuo.

 

Tra le tante attività che avete messo in piedi col vostro team di professionisti, c’è anche la “grammatica della comunicazione”. Di cosa si tratta?

I bambini nati dopo il 2000 sono chiamati ‘nativi digitali’: cresciuti e socializzati attraverso il telefonino, il telecomando e i videogames, vivono in un contesto nel quale rischiano di non apprendere i fondamentali della comunicazione e della vita di relazione. Il mondo dell’ educazione, ossessionato da questa emergenza educativa, cerca una strada nuova per l’ educazione dei nativi digitali. In questo panorama si colloca la risposta di ISACPro con un percorso che fa largo uso di sussidi didattici e giochi educativi che hanno lo scopo di insegnare le abilità prosociali, quali la comunicazione, la cooperazione, la gestione delle emozioni e, più in generale, la capacità di vivere con l’altro.

Questi sussidi educativi vengono prodotti, assemblati, confezionati ed imballati nel Centro di Lavoro Guidato di Mediterraneo e il circuito commerciale di ISACPro li distribuisce in tutto il territorio italiano. Si tratta di un paradosso plastico: persone con Ritardo Mentale, col proprio lavoro, contribuiscono allo sviluppo dell’ intelligenza prosociale dei bambini italiani.

Il lettore non se ne abbia a male se non descrivo la dinamica del gioco che è molto intrigante. Se si vuol sapere di più, basta entrare nel catalogo delle ‘risorse prosociali’ per scoprire che con la grammatica della comunicazione si possono apprendere le regole della comunicazione, proprio come si studia la grammatica della lingua.

 

Tutto quello che pensate e fate, come può cambiare il modo di comunicare e di relazionare di una persona disabile nella società?

Questo può essere compreso, sia pure con un linguaggio globale, a partire dalla storia del David di Michelangelo, così come essa viene raccontata da Antonio Mercurio (1988): giaceva da anni, nell’atrio della Signoria, un’ enorme blocco di marmo al quale diversi artisti avevano cercato, invano, di lavorare, lasciandolo alla fine nel cortile, abbandonato, scalfito in diversi punti e con un’enorme buco in un lato, residuo di uno dei tentativi falliti di qualche artista di cavarne qualcosa di buono. Alla vista di quel marmo Michelangelo ne rimase colpito e chiese più volte la possibilità di poterci lavorare. Dopo tanta insistenza, alla fine, riuscì ad ottenere l’ incarico e fu così che diede vita al David, opera magnifica, costruita proprio intorno a quel “buco”. La stessa cosa spesso accade nella vita dell’ uomo: cresciamo plasmati dalle mani di tante persone, spesso poco attente al “materiale” su cui lavorano. Ognuno di noi, o per nascita o per vicende storiche ha un “buco” nella propria esistenza, che può essere un dolore, un’ aspettativa disattesa o un deficit mentale. A volte questo buco viene “riparato” totalmente, a volte solo in parte, altre volte no, ed ognuno deve fare i conti con quel buco, la cui presenza spesso porta ad essere abbandonati, noi stessi, nel cortile della nostra esistenza, proprio come il blocco di marmo di Michelangelo. Questo marmo, già tagliato e squadrato secondo scelte altrui e poi scheggiato e abbandonato da mani presuntuose ed inesperte, somiglia molto alla nostra vita, così come la riceviamo dalla storia e dai nostri genitori, con un grosso buco nell’ io: non siamo contenti di noi stessi, di come siamo e di come ci hanno fatto essere, con mille condizionamenti e manipolazioni. A questo punto è facile decidere di giacere abbandonati come vittime nel cortile della storia, passando il tempo a colpevolizzare gli altri e a farli oggetto del nostro odio e della nostra vendetta.

La storia del David di Michelangelo ci mostra un’altra possibilità creata dalla genialità, dalla competenza e dal coraggio di Michelangelo: trasformare un inutile blocco di marmo in un’ opera d’ arte. Questa storia suggerisce che ogni persona può diventare artista della propria vita, facendo dell’ esistenza un’ opera d’arte costruita intorno a quel vuoto, così come ha fatto Michelangelo. Sotto questa visione più ampia si può considerare opera d’arte tutto ciò che rende la vita di una persona migliore, più bella per sè e per gli altri, pur in presenza di difficoltà, anzi traendo da queste il senso della propria esistenza.

Quale è stata la risposta dell’opinione pubblica locale?

Mediterraneo, lo abbiamo già detto, lavora conla Persona incrementando l’autodeterminazione, l’autostima, il senso di autoefficacia,agevolando la possibilità di reciprocare, ma lavora con la stessa intensità nella Comunità, nella direzione di favorire progressivamente un contesto facilitante e facilitatore che non costituisca più un ostacolo al naturale sviluppo della persona e delle sue performance. Una Comunità che non consideri la disabilità, ma la persona, restituendole la sua naturale dignità e incrementando gli inserimenti lavorativi che tengano conto dei bisogni e delle necessità dei lavoratori disabili e delle organizzazioni in cui sono collocati. Ma la Comunità, modulandosi in modo appropriato per le persone fragili migliora se stessa e sviluppa legami che la fanno crescere. Questa è stata la risposta della Comunità che ha aderito al progetto “Noi sosteniamo la vita indipendente”. Il primo atto che sancisce la collaborazione tra la Comunità e il Centro Mediterraneo è la sottoscrizione del Contratto Prosociale: NOI SOSTENIAMO LA VITA INDIPENDENTE.

ADESIVO PROSOCIALEIl Contratto è unimpegno etico di responsabilità per la vita del prossimo nel quale sono elencati i punti che individuano il modo migliore per poter partecipare al cambiamento.

L’impegno di chi vi aderisce è quello di accompagnare lo sviluppo progressivo dell’autonomia di scelta e di azione della persona con disabilità, come di qualsiasi persona, riconoscere il diritto di autodeterminazione della persona rispettandone le caratteristiche, i tempi e le capacità, promuovendone così la vita indipendente.

Il secondo atto di collaborazione è un’ azione di vero e proprio ‘advertising sociale’ rappresentato dall’acquisizione e dall’esposizione di un adesivo con la scritta: NOI SOSTENIAMO LA VITA INDIPENDENTE. Tale azione ha lo scopo di creare un legame di identità sul valore della persona.

Con questo progetto la Persona con Ritardo Mentale viene esposta a quello che si chiama ‘insegnamento diretto nella Comunità’ e, in una dinamica di reciprocità, la stessa Comunità, si modella in funzione della persona con Ritardo Mentale, apprendendo nuove competenze sociali.

Non si tratta, quindi, di varare una nuova legge che obblighi la Comunità a farsi carico del destino delle Persone con Ritardo Mentale perché la trama e l’ordito dei legami di una Comunità non si tessono con le leggi ma sviluppando comportamenti prosociali e fertilizzando i valori dell’ unità.

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