La seconda decade del nuovo secolo, più di ogni altro periodo, ha reso disponibile per un numero sempre più vasto di individui (potenzialmente per tutti) una quantità pressoché infinita di informazioni.
Una recente analisi fatta dall’azienda americana Qmee lascia sbalorditi; i numeri sono davvero impressionanti, vediamone alcuni:
- Ogni 60 secondi vengono effettuate 2 milioni di ricerche su Google.
- Sono 204 milioni le email spedite in media ogni minuto.
- Su Facebook si pubblicano 41mila post (messaggi di stato, condivisioni, immagini, etc.) ogni secondo, mentre ogni 60 si cliccano 1,8 milioni di “mi piace” e 350 GB di dati passano per i server.
- Il numero dei siti internet continua a crescere, ne nascono infatti 571 nuovi ogni minuto, dai più grandi ai più piccoli.
- Ogni 60 secondi vengono registrati 70 nuovi domini presso i registri nazionali.
- In tutto il mondo, ogni singolo minuto, si caricano circa 72 ore di video su YouTube.
- Ogni minuto su Twitter vengono pubblicati 278mila tweet.
- Amazon, sito mondiale di e-commerce, raccoglie ogni 60 secondi vendite per 83mila dollari, pari a circa 62mila euro.
- Gli acquisti di album o di singoli brani procedono, dal catalogo online di Apple iTunes, a ritmo di 15mila pezzi al minuto.
- Su Skype ogni minuto transitano 1,4 milioni di connessioni per il servizio VoIP, che consente di telefonare attraverso internet.
- Su Instagram, il social per la condivisione di immagini via cellulare, si pubblicano addirittura 3600 foto al secondo, e i dati ufficiali di Instagram stesso parlano di 8500 “like”al secondo.
Televisione, giornali, radio e soprattutto internet hanno davvero creato quella che i sociologi e filosofi chiamano “cultura di massa”.
Tuttavia avere a disposizione molte o addirittura una sovrabbondanza di informazioni non garantisce il fatto di essere informati.
L’informazione non consiste in un agglomerato indistinto dei dati, perché questi sono appunto solo dati. L’informazione, per essere davvero tale, deve apportare una conoscenza effettivamente utile e utilizzabile da chi la riceve, una sorta di valore aggiunto al mero dato.
Inoltre l’informazione, sembra banale dirlo, dovrebbe essere documentata, corretta, in una parola vera. Ma noi sappiamo che l’affermarsi del web 2.0 ha portato qualunque individuo dotato di un terminale e di una connessione ad esprimere il proprio pensiero, parere e conoscenza nella rete, a prescindere dalla autenticità e/o verità di quello che si va scrivendo o postando. Da qui il fenomeno dilagante dei fake, delle bufale e delle false notizie nel web.
Quando erano i media tradizionali ad informarci, al di là delle strumentalizzazioni politiche che ci sono sempre state, sapevamo, o almeno speravamo, che un controllo delle fonti, una ricerca di testimoni ed un controllo redazionale ci sarebbero sicuramente stati.
Oggi invece, come già ci ammoniva il compianto Umberto Eco,
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli.”
Come difenderci da una informazione che in qualche maniera può essere falsa, mendace, inventata o alterata?
Due le strade percorribili: la prima è quella di un “consumo critico” dell’informazione, a prescindere da chi venga divulgata, visto che sempre più spesso accade che quotidiani autorevoli riportino ed amplifichino bufale postate in rete.
La seconda è assegnare un’etichetta di priorità e autorevolezza all’informazione che ci viene inviata. Se, ad esempio, sto parlando di “vaccini”, l’esperienza che ho ascoltato al bar da una mia amica, o il post su Facebook di una mamma ansiosa, non sono minimamente paragonabili all’opinione di un ricercatore universitario che ha pubblicato la sua ricerca su una rivista scientifica come “The Lancet” o il New England Journal of Medicine.
Ne è un esempio eclatante il recente caso scoppiato nel dicembre del 2016, che ha interessato il virologo e ricercatore Roberto Burioni, che dal suo profilo Facebook si scagliò contro i commenti xenofobi ad un suo post che cercava di spiegare la natura degli ultimi casi di meningite scoppiati nel nostro Paese. Dopo aver cancellato tutti i commenti sentenziò in un post: “la scienza non è democratica”.
Il nostro magazine, che questo mese ritrovate in una nuova veste grafica, con un sito tutto rinnovato, ha da sempre fatto sua la filosofia di ricercare l’autenticità e la verità delle notizie e degli articoli che pubblica, affidandosi innanzitutto ad esperti riconosciuti che curano le singole rubriche e poi verificando e controllando ogni singolo articolo prima di pubblicarlo. Questo non ci esenta dal commettere errori, in fondo siamo umani, ma, siamo sicuri, limita di molto la frequenza degli stessi.
Questo numero, oltre a presentare il restyling del sito, ha, come i primi due di questo 2017, il titolo che fa riferimento ad una famosa mostra d’arte contemporanea internazionale: in questo caso si tratta di “Information”, che si tenne al MoMa di New York nel 1970 e che rappresentò la prima grande vetrina per l’arte concettuale. La mostra si interrogava sul ruolo dell’informazione e della circolazione della conoscenza nei tempi moderni, analizzando come la rapidità con cui le notizie circolavano potesse cambiare il mondo dell’arte e il modo in cui gli artisti si relazionavano ad essa ed al contesto circostante.
Erano gli anni ’70, quindi molto prima dell’avvento di internet, eppure il curatore Kynaston McShine e gli oltre 150 artisti invitati anticiparono con le loro opere tematiche e complessità ancora oggi attuali, confermando, ancora una volta, il ruolo di profeta dell’arte, che vede sempre prima e più lontano della mera cronaca e di noi comuni mortali.
Anche la Copertina d’Artista è a tema ed infatti ad illustrarla abbiamo chiamato un’artista che si cela dietro un alter ego a cui ha dato il nome di Gemma Carta, che esercita il suo essere artista attraverso degli IMA (Intervento Mediatico Attivo) che rappresentano delle vere e proprie incursioni nel mondo dell’arte e dell’informazione.
L’opera si chiama “102 minutes” e rappresenta anch’essa un’informazione, volutamente alterata, che, come una navicella spaziale e temporale, viene idealmente inviata nel passato, creando un interessante cortocircuito mediatico fra una mostra del 1970 ed una notizia del 2001.
A questo punto non resta altro che augurarvi buona lettura, ricordandoci una raccomandazione dello scrittore Chuck Palahniuk :
“Per avere in mano la propria vita, si deve controllare la quantità e il tipo di messaggi a cui si è esposti.”