Cosa abbiamo imparato dalla scorsa settimana?
Abbiamo avuto la riprova che un referendum spesso ha un potere divisorio, esaspera le divergenze, al più permette di poter aprire una fase di negoziazione successiva. E la Spagna ci ha anche offerto, ancora una volta, quanto poco informate siano le persone al momento di esprimere un voto. Peccano ovviamente gli organizzatori di un evento elettorale così importante perché non offrono un chiaro quadro delle possibili conseguenze da attribuire ad un risultato elettorale che rompe con l’attuale modello. È avvenuto con l’UK e ovviamente in Catalogna le azioni dei grandi gruppi economici post votazione, nell’incertezza di un quadro normativo in evoluzione ma ignoto, preferiscono spostare headquarters e ovviamente centri fiscali al di fuori della zona d’ombra.
Già, sembra quasi che i referendum siano più capaci di creare ombra, invece che fornire soluzioni.
È raro che mi metta a parlare di politica negli appuntamenti settimanali, ma i mercati finanziari sono stati condizionati molto più dalla politica che da avvenimenti economici, negli ultimi 24 mesi. E allora pur non prendendo volutamente una posizione, anche perché la violenza utilizzata per reprimere un voto, oltretutto inutile legalmente parlando, è stata cosi eccessiva da spingermi ad analizzare solo la radice del problema: politica di basso livello.
Intravedo un comune denominatore nelle scelte politiche errate e ridicole che stanno caratterizzando l’Europa. Dall’UK alla Catalogna, non trascurando nessun altro movimento indipendentista locale (sia esso di radice italiana, francese o greca) si pecca sempre nel non fornire alcun dettaglio realistico sulle conseguenze di un abbandono di un sistema economico. Non è un “banale” divorzio, per il quale comunque si debbano assolvere le spese legali ed eventualmente i costi successivi legati al mantenimento della parte più debole (al momento in UK si deve giustificare al popolo una fattura da pagare per poter uscire dall’Europa). Non è banale per il solo fatto che non si è mai completamente liberi, ma si torna al più ad essere soli e isolati pur inseriti nel medesimo contesto economico, con tutte le relazioni che ne comporta.
Ma abbiamo imparato anche che una certa pressione dai salari inizia ad arrivare, e finalmente aggiungerei.
In US il Job report di settembre ci fotografa una situazione, sicuramente influenzata dalla stagione degli uragani, -33.000 unità dei nonfarm payroll, ma ancora a supporto dell’economia. Una spinta inflazionistica sembra giungere dal dato sulla disoccupazione, che ha raggiunto il 4.2% e l’aumento delle paghe, che fa segnare anno su anno un +2.9%. Probabilmente sul meccanismo di formazione dei prezzi inciderà anche il lato occupazionale oltre all’effetto da imputare alle più volatili materie prime.
Così il Treasury a 2 anni arriva a toccare anche l’1.52% subito dopo il dato, segnando il suo massimo dal 2008 e iniziando a scontare non solo il rialzo a dicembre, ma che la FED continui nella sua strada intrapresa con vigore anche per il 2018. Anche la parte a lungo termine ha reagito ai dati dell’occupazione statunitense, con il 10 anni e il 30 anni che hanno toccato rispettivamente il 2.40% e il 2.90%. Tuttavia sembra quasi che la festa possa durare sempre troppo poco, dopo un rialzo dei rendimenti. Anche in questo caso il mercato ha poi preferito tornare a comprare i nuovi livelli di rendimento e a preferire i bond a lungo termine.
Un po’ perché questa fame generalizzata di rendimenti sembra non sia facilmente placabile, un po’ perché’ gli investitori indicando di preferire l’appiattimento della curva (salvo dei movimenti di rilascio tipici di un mercato tecnico e in ipercomprato) scommettono che il rialzo dei tassi indurrà l’economia americana verso una fase di recessione. E allora il ruolo di un livello di inflazione sospinto da anni di incessante easing quantitavo potrebbe addirittura mostrarsi inopportuno, quantomeno nella tempistica. Sarà un gioco di abilità quello di destreggiarsi negli scenari futuri e come al solito la guerra valutaria può e deve continuare. Una FED non troppo aggressiva può probabilmente salvare il salvabile. Innalzare i rendimenti pur mantenendo il dollaro in modalità debole. Cosi la crescita dell’economie emergenti può continuare a fare da volano per l’economia globale.
Christian Zorico: LinkedIn Profile