Frammenti segreti di ingerenze politiche nel cinema italiano

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Gino Cervi e Fernandel, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino Guareschi.

I primi due mesi del 2018, si sono vissuti interamente, o quasi, in campagna elettorale. Le elezioni si sa, catalizzano l’attenzione mediatica dei mass-media e diventano un po’ un fenomeno di costume. Oggi c’è Berlusconi, c’è Renzi e c’è Di Maio; una volta c’era la DC e c’era il PC. Oggi c’è la televisione, prima del 1954 invece no. C’era però il Cinema, con la sua proverbiale capacità trascinatrice. Oggi la politica entra dappertutto, come allora, come allora nel Cinema. E dato che parliamo di Cinema, proviamo ora a raccontarvi quattro storie di Cinema segrete, curiose, quattro storie di ingerenze politiche a cavallo tra Italia e Francia. Fissiamo l’inizio del nostro racconto nel 1951 e precisamente nell’estate del 1951, quando nella Bassa Padana arriva la gente del Cinema, da Roma, da Cinecittà, e inizia un folle giro tra le province di Parma, Reggio Emilia e Piacenza, alla ricerca di un borgo particolare. Questa è la genesi della avventure epocali di Don Camillo e del Sindaco comunista Peppone, sul quale produttori e registi, sapevano già che ci sarebbero stati parecchi problemi, e si cercò in maniera preventiva di trovare un accordo con la censura. La pellicola ovviamente trae spunto dalle avventure di Don Camillo e del sindaco Peppone, nati dalla sagace penna di Giovannino Guareschi, reazionario e comunque pesantemente schierato politicamente.

Gino Cervi e Fernandel, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino Guareschi.
Gino Cervi e Fernandel, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino Guareschi.

Il primo regista a essere interpellato fu Alessandro Blasetti, che cominciò a pensarci con entusiasmo e poi, visti i problemi di natura politica che ne sarebbero sorti, rifiutò in modo simpatico e cordiale. L’affare passò nelle mani del produttore Peppino Amato, che coinvolse la Cineriz di Angelo Rizzoli, e furono interpellati altri registi. Mario Camerini, che nel 1972 avrebbe diretto “Don Camillo e i giovani d’oggi”, non se la sentì di passare per anticomunista. Vittorio De Sica si vantò su “l’Unità” di aver rifiutato sdegnosamente l’offerta. Luigi Zampa, solo all’idea di mischiarsi a quel bifolco reazionario di Guareschi disse che non ci pensassero nemmeno. Lo scoglio politico pareva insormontabile, quanto meno in Italia. Vista la fermezza di Guareschi e visto che in Italia la fifa faceva 90, Amato tentò all’estero. Il primo a essere interpellato fu Frank Capra, ma il regista americano si sarebbe liberato solo nel 1953, troppo tardi per i progetti del produttore. Finalmente si arrivò a Julièn Duvivier, uno dei cineasti di maggior successo in quel periodo, che accettò e ottenne la possibilità di riscriverne il copione. Affidare dunque ad uno straniero la direzione del film sembrò a tutti la direzione migliore per superare gli ostacoli di natura politica, che rischiarono di far naufragare il film. Si creò, comunque durante il film un grosso polverone politico e il frutto un simile baccano risultò essere la fifa a scoppio semiritardato di Duvivier.

ho-scelto-lamore-1953Fin dall’inizio aveva avuto qualche remora nell’associarsi a un reazionario dichiarato come Guareschi. Ma ora proprio voleva prenderne le distanze. Cominciò modificando la sceneggiatura e compiendo una vera e propria opera di depoliticizzazione lasciando spazio al solo umorismo. Eppure, quando il film andò nelle sale nel 1952, gli spettatori capirono ugualmente quello che Guareschi aveva voluto dire. Merito dei suoi personaggi, delle sue atmosfere, del suo sentimento della vita. E merito anche di quella accoppiata fantastica e bizzarra, ma azzeccata fatta da Fernandel e Gino Cervi. Pochi ci avrebbero scommesso al momento di metterli insieme, tanto che della serie ci saranno altre quattro riuscite pellicole negli anni a seguire. Stessa cosa grosso modo, accadde per “Ho scelto l’amore” del 1953, anche se in questo caso ancor di più si può parlare di ingerenze politiche che determinano il risultato della pellicola stessa. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene (guarda caso) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana.

Renato Rascel nel film "Il cappotto".
Renato Rascel nel film “Il cappotto”.

Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese (l’Italia) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo-americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50. Addirittura l’intervento censorio venne esteso anche sulle locandine pubblicitarie correlate alle pellicole stesse, le quali non dovevano ovviamente ledere il buon costume e mostrare espliciti riferimenti a sesso, politica, religione o violenza. Tre casi su tutti vorrei qui enunciare. Per la locandina de “La famiglia Passaguai”(1952) di e con Aldo Fabrizi, venne censurata una delle locandine, perché Aldo Fabrizi mostra un disegno di un corpo di donna nudo, su cui aveva inserito il suo viso; e il manifesto del film “Poveri ma belli”, venne modificato, quindi censurato, su indicazione delle istituzioni ecclesiastiche, perchè il fondoschiena di Marisa Allasio era ben in evidenza; anche il manifesto di “Dove sta Zazà”, con Nino Taranto, venne censurato perchè la locandina mostrava chiaramente il disegno di una donna in costume da bagno.

Valter Chiari e Luca Barbareschi sul set di Romance
Valter Chiari e Luca Barbareschi sul set di Romance

Ma le ingerenze politiche non si limitano soltanto alla censura di un film o alla sua creazione per scopi meramente politici. Come in molti concorsi, ahimé, la politica è parte integrante, spesso, dei risultati che scaturiscono dai Festival. Due casi spiacevoli su tutti, ci aiuteranno a capire questo concetto. Parliamo ancora di Renato Rascel e di quella che da molti è ritenuta una delle più belle interpretazioni della storia del cinema italiano, ovvero quella del “Cappotto”, di Alberto Lattuada. Il film è talmente tanto applaudito, da mettere d’accordo pubblico e critica (spesso, troppo spesso, in disaccordo) e unanime è l’apprezzamento per l’interpretazione di Rascel, che dal film riceve ampia notorietà e fama internazionale. Il film presentato in concorso alla quinta edizione del Festival di Cannes, riceve sonori e scroscianti applausi sia per la sua confezione che per l’interpretazione dell’attore protagonista; leggenda vuole che i giurati stiano per dare la coppa per la miglior interpretazione proprio a Renato Rascel, il film come detto piace molto, ma Marlon Brando con Viva Zapata gliela porta via. Tale fu il clamore suscitato da quell’incredibile ingerenza politica, neanche troppo malcelata, che sei anni più tardi, Renato è di nuovo a Cannes, sfila di nuovo sul red carpet del Festival francese, e questa volta il suo film in gara, “Policarpo, ufficiale di scrittura” vince il premio come miglior commedia della kermesse. Un risarcimento per l’efferato scippo di sei anni prima? Forse. Probabile. Ma peggio, molto peggio si fece nel 1986, con il grande Walter Chiari, rientrato dopo anni di faticosa risalita, alla ribalta, in seguito a quell’assurda storia di droga, che gli tolse fama e lavoro.

Al film “Romance”, appunto presentato alla 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, resta legato un episodio molto spiacevole divenuto poi famosissimo. Proviamo a ricostruire il fattaccio. Era un settembre bollente e Venezia si era fatta bella per accogliere il meglio del cinema mondiale. Alla kermesse era presente anche un piccolo grande film, poetico,elegante, sincero, che aveva riportato una vecchia volpe dello spettacolo come Walter Chiari, ai fasti di un tempo. Il titolo era “Romance” e il regista Massimo Mazzucco. Il film fu applauditissimo dal pubblico e osannato dalla critica, e da outsider, si issò ben presto addirittura, come il film favorito per la vittoria finale del Leone d’oro, o almeno per la Coppa Volpi al miglior attore. Il giorno prima della premiazione ad un Walter Chiari raggiante fu annunciato da un incaricato della giuria che avrebbe vinto il premio per la migliore interpretazione maschile. Lui pazzo di gioia chiamò amici e parenti al Lido, per vedere consegnare, durante la cerimonia finale, il premio ad un altro attore, Carlo Delle Piane, che proprio Walter aveva tenuto a battesimo in teatro fin dagli anni ’50. Così quello che avrebbe potuto essere un giusto riconoscimento per un grande attore giunto al termine della sua carriera si tramutò in una beffa feroce. Una brutta storia che conferma come il grande successo di Walter Chiari sia sempre stato scomodo a qualcuno. Questa fu quindi la storia di un tradimento allucinante, eclatante e orrendo. Nella notte prima della premiazione, secondo una ricostruzione alquanto attendibile, suonano i telefoni della giuria, una misteriosa voce dall’altra parte della cornetta li riunisce tutti, in piena notte e in grande segreto. La motivazione? Togliere il premio già assegnato a Walter Chiari e assegnarlo ad un altro, magari a Carlo Delle Piane, perché no. Lì c’è stata un’ingerenza politica talmente evidente che Grazzini sul Corriere della Sera scrisse: “vittoria artistica di Walter Chiari, vittoria politica di De Mita [allora a capo del Governo] e Pupi Avati”. Fu un grosso sgarbo fatto a Walter, tanto che la protesta dei fotografi che poggiarono le macchine a terra e i fischi della platea, al momento della consegna del premio a Carlo Delle Piane, sono rimasti nella storia. Curiosamente dieci anni dopo lo stesso Pupi Avati, consegnerà a Massimo Boldi il ruolo della vita, facendogli interpretare il personaggio di Walter Chiari e ricostruendo gli attimi concitati della 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e di tutto quello che successe in quella tormentata edizione della kermesse italiana. Il film si chiamerà proprio “Festival” e rappresenta la vetta artistica di un Massimo Boldi sorprendente, per la prima e unica volta drammatico. Ed è tantissima roba.massimo-boldi-festival

Ci siamo dilungati, ma se il mondo è pieno di ingerenze politiche, volte a rovesciare sovente i verdetti, per opportunità, per comodità o per scomodità, anche il Cinema bisogna ammettere non è scevro da questo cancro. Abbiamo elencato i casi più comuni, più eclatanti, quelli che hanno fatto storia e che, per colpa di ingerenze politiche, ci hanno regalato casi orribili, come quello capitato al povero Walter Chiari, che innanzitutto era una brava persona ed un’artista insuperabile e non avrebbe meritato questo tipo di trattamento.

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