Lo Specchietto Retrovisore. Cosa ci dice lo spread sopra quota 300pb?

Blog di mercati e finanza a cura di Christian Zorico (rubrica settimanale)

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Cosa ci dice lo spead sopra quota 300bp

Lo spread sopra quota 300pb è ancora lontano dalla soglia critica dei 400 punti base, eppure è un differenziale che fotografa benissimo la situazione italiana. Al grido del “me ne frego”, sbraitato da convinti euroscettici e da pappagalli poco informati ma amanti dei proclami da “macho”, risponde la verità vera del responso dei mercati. Il comportamento in salita dei rendimenti dei Titoli di Stato italiani con l’insediamento del nuovo governo gialloverde e la repentina impennata a seguito del DEF (Documento di Economia e Finanza) non lasciano spazio alla bontà delle misure che il nuovo governo intende mettere in atto. E’ una bocciatura che anticipa il downgrade ormai certo delle agenzie di rating e che soprattutto non accenna rientrare su livelli più accettabili.

Il deficit all’1.6% per il quale il Ministro del Tesoro Tria sarebbe stato integerrimo nel far rispettare all’attuale governo non rappresenta di per se una soglia insuperabile. Cosi come se il DEF avesse previsto un ricorso al deficit entro la soglia del 2%, probabilmente le sorti per l’Italia non sarebbero mutate, almeno nel lungo termine. Già perché questo governo che si è autoproclamato del cambiamento, non è riuscito a convincere gli investitori che, alla fine, presentano un conto. Lo spread in rialzo è esattamente il conto che l’Italia, a conduzione populista, deve pagare. Non convincono il reddito e la pensione di cittadinanza in quanto gli stanziamenti sono esigui rispetto alla risoluzione del problema povertà in Italia e al tempo stesso restano eccessivi e privi di coperture strutturali. A conti fatti, saranno insufficienti a soddisfare l’intero elettorato dei 5Stelle e con altissima probabilità saranno ad appannaggio dei furbetti del lavoro in nero. Quanto alla parziale rivisitazione della riforma Fornero sulle pensioni, la quota 100 accentua ancora una volta lo scontro generazionale tra chi una pensione la sta raggiungendo e chi una pensione non l’avrà mai nell’accezione del termine a noi conosciuto. Resta la pace fiscale, un travestimento dell’ennesimo condono e pochissimi investimenti per lo sviluppo. Gli operatori i mercato bocciano esattamente la qualità della manovra, il ricorso al debito per spese improduttive e l’assenza di una chiara visione che porti le imprese italiane ad essere più produttive. Pensando a quanto partorito dai due partiti più populisti che abbiamo in Italia, utilizzerei la seguente definizione: un trasferimento nel tempo e tra parti sociali di ricchezza. Tra chi produce verso chi è improduttivo o ancor peggio “furbo” fiscalmente e tra chi attualmente ha un lavoro o una pensione sovvenzionato dalle future generazioni.Cosa ci dice lo spead sopra quota 300bp

Tralasciando per il momento la crescita del prodotto interno lordo, che qualora risultasse superiore alle attese come si auspicano i fautori della manovra, dovrebbe abbassare il rapporto Debito/Pil mi soffermerei soprattutto sulla produttività italiana. Molto più interessante guardare alla produttività del Bel Paese, ovvero alla misura della crescita del valore aggiunto dovuta alla conoscenza, al progresso tecnico e all’efficienza. A come le imprese riescono a sfruttare capitale economico e capitale umano all’interno del sistema organizzativo, essere infine competitivi nel panorama internazionale. Dall’ultimo “Compendio degli indicatori sulla produttività”, pubblicato dall’OCSE, emerge un’istantanea che racconta un’Italia lenta nel progredire perché ferma dal punto di vista della produttività. Guardiamo qualche numero prima e poi proviamo a capirne le cause e magari a lanciarci verso qualche aspettativa dal sapore avveniristico.

Tra il 2010 e il 2016 l’Italia ha visto una produttività, intesa come prodotto interno lordo per ora lavorata, aumentata solo dello 0.14% medio annuo. La classifica è pietosa perché ad aver fatto peggio troviamo solo la Grecia che ha segnato un valor medio del -1.09% per lo stesso periodo e che ha dovuto far fronte ad un periodo di stretta finanziaria senza eguali. Ma la situazione andando indietro nel tempo non muta, anzi è addirittura peggiore. Nel periodo 2001-2007 l’Italia si colloca all’ultimo posto sui 40 Paesi industrializzati presi in esame con un negativo -0.01%.

E per quale motivo questo governo del cambiamento dovrebbe invertire la rotta? Un costo del debito più elevato di certo si ripercuote sul costo di finanziamento delle aziende oltre che dei privati. Lo stesso sistema bancario si ritrova nella condizione di limitare l’accesso al credito e aumentare il costo dei prestiti. Dal punto di vista dell’efficienza tecnologica poi, un elemento su cui si potrebbe far molto per incrementare la produttività delle imprese, non traspare nulla nel DEF. Scuole e sistema universitario non sono i principali fruitori dell’incremento del debito. Si investe pochissimo in tecnologia ma è anche vero che si promette uno snellimento delle funzioni amministrative che in linea teorica dovrebbe fungere da catalizzatore positivo. Potrebbe solo questo però non essere sufficiente ad un Paese come l’Italia che ha visto crescere solo lavori poco produttivi legati per lo più al turismo. Inoltre le paghe di alcuni settori a basso livello di produttività hanno difatti portato al ribasso la media nazionale dei salari.

Al momento lo spread sopra i 300 punti base ci segnala che il paziente ha la febbre. E’ un rapido indicatore, un allarme che ci segnala che siamo malati e che in chiave prospettica ci avviciniamo all’inverno senza coprirci con cautela. Cresciamo poco, lo facciamo con gran fatica e ci portiamo sul groppone un debito elevato con l’aggravante di non volerlo ridurre. La cura che si sta per mettere in pratica potrebbe non ridurre la febbre, alimentando purtroppo alcuni dei fattori che sono causa principale del divario tra noi e gli altri Paesi industrializzati. Il sistema Italia perde capitale economico, anche solo per il semplice fatto che questa manovra ha un costo oltre che allontanando gli investimenti esteri, ma allontana anche capitale umano, non attraendo i giovani emigranti e che hanno fatto esperienza all’estero e ponendo le condizioni affinché il trend in atto continui imperterrito.

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