Certe emozioni non si possono raccontare con l’immediatezza dettata dai tempi giornalistici, per comprendere ed assaporarle, è necessario lasciarle sedimentare negli strati più profondi della coscienza per ristabilire un collegamento con quanto più di ancestrale ci appartiene.
È il caso di “Isola di fuoco”, progetto ideato dal cantautore Colapesce che prende vita dall’omonimo documentario, girato in Sicilia alla metà degli anni ’50, dal maestro Vittorio De Seta.
De Seta, uno dei più grandi documentaristi che l’Italia abbia mai conosciuto, nel 1954 gira sull’isola di Stromboli, il suo capolavoro, premiato l’anno successivo al Festival del Cinema di Cannes, raccontando un mondo prevalentemente rurale, in cui sudore, fatica, fame e sacrifici, sono spezzati da momenti conviviali e feste tradizionali religiose.
Uomini e donne, con i volti segnati dal rovente sole siciliano, vivono in un costante rapporto simbiotico con il mare, la terra ed il vulcano, dove sussistenza ed opulenza si mischiano e fervore religioso e credenze popolari si confondono.
Immagini semplici, che riprendono una quotidianità aspra e che forse non siamo abituati ad immaginare, ma che fissano un’istantanea precisa e fedele di un tempo non troppo lontano dal nostro, poco più di sessant’anni, eppure concettualmente alieno rispetto alla società in cui ci siamo assuefatti a vivere.
Immagini, alcune volte cruente e crudeli, altre volte dense di poesia, ma sempre pregne di una grande potenza evocativa e che lasciano ad intendere nostalgia per una maniera di vivere ormai scomparsa ma, soprattutto, in cui traspare un grande amore per la propria terra e le proprie tradizioni.
Un amore smisurato che De Seta non ha mai celato e che Colapesce, al secolo Lorenzo Urciullo, anch’egli siciliano, continua a dichiarare apertamente, regalandoci performance dedicate al paese natio, come “Isola di fuoco”, che difficilmente è possibile dimenticare.
Concerto per visioni, così definisce il suo progetto Colapesce, che anche lo scorso 15 marzo, ha emozionato il pubblico del Teatro Rossini di Gioia del Colle (BA), accompagnato dal musicista Mario Conte.
Inesplicabile lo spettro delle sensazioni che colpiscono l’anima del variegato uditorio presente nel caratteristico Teatro Rossini; certo è che il complesso di suoni, rumori, musica e canzoni, nel senso più ampio del termine, non lascia indifferente nessuno ed al tempo stesso lascia senza parole.
La meraviglia, lo stupore, l’incredulità diventa ancora più palpabile quando la magistrale fotografia, colpisce l’attenzione degli spettatori e la musica si fonde con le immagini, alcune volte feroci e spietate, come nel caso della cattura del pesce spada, altre volte trasognate, e incantate, come durante una tranquilla notte di pesca avvolti dalla nebbia.
Urciullo e Conte, combinano suoni, li fondono alla visione, in un unicum rigorosamente improvvisato, si lasciano guidare e guidano lo spettatore nel percorso visivo, immergendo e lasciandosi immergere in un’atmosfera onirica e surreale, che diventa poetica quando Colapesce presta la sua voce al filmato, così “Pantalica”, materializza e rende concreto il paesaggio e le sue pietre “fra il fico d’india e le stelle”.
Le immagini poi, cedono il posto ad alcuni brani cantati, lasciando un ulteriore spazio alla riflessione ed all’emozione, per poi concludersi con un piccolo, ma sentito omaggio a Fabrizio De Andrè ed alla sua “Canzone dell’amore perduto”.
Un amore forse più simbolico e metafisico rispetto a quello cantato da De Andrè, che invece di perdere la donna amata, si rifiuta di smarrire le proprie origini e la propria storia millenaria, a favore del mondo globalizzato.
Sorge spontanea, infatti, un’ulteriore riflessione più profonda, che vede contrapposto l’antico mondo, isolano e rurale, in cui tutti vivono in simbiosi e rispetto nei confronti della natura, madre solitamente benevola, ma che talune volte, si trasforma in maligna e portatrice di calamità, nondimeno sempre bisognosa di cure, sudore e uomini, donne e bambini da sacrificare al duro lavoro, al moderno mondo globalizzato, dove quel che conta, non è il boccone per sfamarsi, ma il profitto.
Profitto inseguito ad ogni prezzo, dove l’importante è produrre senza curarsi del depauperamento delle risorse, sfruttando e distruggendo, dove le macchine si sono sostituite alla fatica delle braccia, dove non esiste rispetto per l’habitat naturale, ormai assoggettato al volere umano e slegato dalla normale ciclicità delle stagioni.
Una natura di cui non ci curiamo più e che magari, preferiamo solo ammirare attraverso lo schermo di uno smartphone.
Il cantautore siciliano, invece, attraverso una dimensione quasi onirica ci spinge a riflettere, ci riporta indietro alle origini di quel mondo ormai perso, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare, cercando di ristabilire il contatto con la madre terra.
L’immersione in questo mondo antico, non sarebbe stata possibile senza i sacrifici dell’Associazione “Ombre”, che si è sforzata di selezionare per il pubblico del Festival INDIEsposizioni, un cartellone così variegato e ricercato, tale da sdoganare il complesso mondo dell’Indie e le sue molteplici sfaccettature, anche a spettatori diversi, per età ed estrazione sociale.