Abbiamo svalutato la vita: si può parlare di una strategia di marketing della morte?

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Abbiamo svalutato la vita: si può parlare di una strategia di marketing della morte?

A che serve il marketing? A vendere prodotti? A fare pubblicità? A convincere che qualcosa non è come pensavamo? A cambiare l’opinione nei momenti di crisi?

Il marketing è almeno tutto questo, ma molto ancora.

E, prendendo spunto da queste idee, direi che una delle azioni di marketing più azzeccate di questo periodo sia legata alla morte.

La morte è ovunque.

È al telegiornale, nelle pubblicità contro il femminicidio, nei videogiochi, nei cartelli per strada delle pubblicità progresso, sulla faccia delle persone. Ma invece di colpirci e farci riflettere è diventata una sensazione banale e insignificante.

Quando scatta il dibattito politico sull’immigrazione, si parla di persone, vive o morte, che sono diventate un problema da gestire. Non è questione di colore del partito, ma nel momento in cui degli esseri umani sono un problema, siamo decaduti molto più in basso degli animali perché la morte non ci tocca più e quindi neppure la vita.

Nel 2024 (da gennaio al 10 novembre 2024) ci sono state 98 vittime di femminicidio, alcune portate alla ribalta dai media che ne hanno esaltato la portata, la crudezza, ma anche la curiosità morbosa e molta meno pietas di quelle che le vittime stesse forse avrebbero voluto. Si parla di morte, ma a parte un paio di nomi chi ricorda quelle persone? È più facile ricordare 98 giocatori di serie A che non 98 persone trucidate.

E le stragi in famiglia?

Figli che uccidono i genitori o genitori che uccidono i figli.

Il Viminale ne aveva censite 88 fino ad agosto di quest’anno e ormai siamo verso i 100. Si parla di morte, ci si chiede perché, come sia potuto accadere, come mai un giovane possa uccidere qualcuno solo per sapere cosa si prova a farlo.

Eppure, succede, si parla di morte ma guai a parlare di vita.

Un altro tormentone del 2024 è “malore improvviso”. Cercando su Google News i risultati sono a migliaia. Persone giovani, sportivi, lavoratori, autisti di mezzi pubblici che per un malore improvviso sono morti. Così tanti che non si contano. Così tanti che costringono la testa a passare oltre, come se nulla fosse.

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Per molti è il periodo dei bilanci. Per altri quello della lista dei buoni propositi. Al netto di quello che può rappresentare per ognuno di noi, ogni fine anno si porta inesorabilmente dietro pensieri, riflessioni e la pianificazione di nuovi progetti.

Infine, i giovani, gli adolescenti, i ragazzi di oggi che bombardati da morte senza ragioni, senza motivo, violenza senza un perché e baby gang si proteggono e si difendono non dandole valore, ma così svalutano la vita. Una vita agli albori, nel fiore degli anni come si direbbe.

Fortnite o uno dei tanti sparatutto, dove uccidere è la regola, oppure le challenge dove sfiorare la morte è un rito di iniziazione, un modo per vincere.

A volte la vita non è neppure la nostra, come nella sex roulette, dove la ragazza, rimasta incinta, ha perso la sfida, ma si è trovata a decidere di se stessa e di un altro cuore che batte.

Non possiamo non pensare alla morte con i tatuaggi, come la lacrima, simbolo di omicidi commessi e ora, a volte senza comprenderne il senso, fatto solo per moda. Un altro veicolo comunicativo legato alla morte, ma svuotato del significato.

Da anni quest’opera di marketing globale per privare di senso la morte è riuscita nell’intento fino a renderci pronti a sacrificare l’altro o noi stessi. Una case study di successo fatta di bombardamenti costanti di uno stesso messaggio fino a renderlo vuoto.

Come è avvenuto per i pacchetti di sigarette con immagini crude e scritte “nuoce gravemente alla salute” che hanno invogliato a smettere solo un 5% delle persone intervistate in Italia, mentre in altri Stati i numeri sono ancora più esigui (studio pubblicato sulla rivista di Epidemiologia. Numero marzo-aprile).

Così ora, piuttosto che comprendere e apprezzare il dono della vita, finiamo per non dare peso alla morte. Il risultato è un costante sgretolarsi di senso e di umanità, quella stessa umanità che ci rendeva diversi dagli animali.

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