Armando De Vincentiis (29)
Nelle sezioni precedenti abbiamo visto che la maggior parte delle esperienze umane, comprese quelle psicopatologiche, si alimentano grazie ad un terreno fertile in grado di favorire o contrastare l’espressione di queste. Ogni atteggiamento umano è sempre la conseguenza di una interazione e di uno scambio di feedback che lo mantiene in vita. I comportamenti assumono funzione nel contesto dove si esplicano e da tale contesto ne sono favoriti. Un articolo fa abbiamo osservato come alcune psicopatologie non possono essere presenti in certi ambienti dal momento in cui questo non ne fornisce possibilità. L’obesità e la bulimia, ad esempio, sono improbabili in un paese del terzo mondo (abbiamo già espresso le motivazioni) e il lettore non ha certo la necessità di fare ricerche per capire il perché. Ci sono altre patologie, tuttavia, che hanno uno stretto legame con la cultura di appartenenza e la possibilità pragmatica di lasciare che esse prendano il sopravvento. I disturbi ossessivo-compulsivi ad esempio hanno un carattere universale e si evidenziano nella stessa misura in ogni contesto. Ma anche quest’ultima psicopatologia assume forme e contenuti diversi che, necessariamente, devono essere favorite dall’ambiente. C’è chi deve ripetere certi rituali, chi deve osservare per un numero di volte la stessa cosa, chi compie calcoli, chi cerca di risolvere mentalmente problemi irrisolvibili e così via. La modalità ossessiva rappresenta la psicopatologia più creativa (si fa per dire) in grado di contribuire alla sofferenza sotto varie forme.
Una in particolare è difficilmente inquadrabile poiché è quasi accettata dal nostri sistema economico-culturale e, spesso, favorita. Parliamo della shopping compulsivo. Quella voglia irrefrenabile di acquistare tutto ciò che ci passa per la mente, pena una profonda ansia e tensione che non può essere acquietata in nessun modo. Ed ecco che ci troviamo al cospetto di una malattia psicologica che ha la necessità di diversi ingredienti affinchè si mantenga in vita. La spinta patologica all’acquisto, la possibilità economica, o meglio, la possibilità di accedere a risorse (pur indebitandosi) economiche, e l’offerta. Lo shopping compulsivo non può vivere di vita propria come una rimuginazione, come la compulsione a lavarsi le mani o a controllare gas e porta. Lo shopping compulsivo è una di quelle patologie favorite e alimentate da un sistema sociale che deve necessariamente offrire materiale affinchè si esprima.
La pubblicità è un invito alla sua evidenziazione, certo non ne è la causa (con la pubblicità il commercio vive) né la si sta condannando, ma si evidenzia solo che, paradossalmente e involontariamente, è una di quelle poche cose che offre un invito esplicito ad una malattia poco conosciuta. La funzione di ogni campagna pubblicitaria è quella di creare un bisogno là dove non c’è facendo nascere l’esigenza di un prodotto del quale, in molte occasioni, potremmo farne a meno e, sicuramente, non vitale per la nostra sopravvivenza. Ma provate ad immaginare la potente capacità di un processo pubblicitario verso chi non ha una semplice necessità, bensì ha una patologica compulsione ad acquistare qualcosa. Una trappola dalla quale sembra quasi impossibile sottrarsi. Questo accade nel quotidiano, giorno dopo giorno, ma ci sono periodi in cui tale martellamento si fa sempre più dirompente e l’invito alla shopping patologico è quasi esplicito; stiamo parlando del periodo natalizio.
In questa dimensione non ha importanza che ci sia una tendenza compulsiva alla base o meno, tutti sono animati dalla pulsione del regalo, una sorta di ipnosi collettiva dalla quale non ci si sottrae e dove anche la persona sana sembra una specie di automa che gira per le vie della città carica di pacchi dal contenuto altrettanto inutile, ma che dovrà essere donato in occasione della tradizione. Anche se la compulsione patologica tende a far accumulare gli acquisti senza che essi vengano regalati, la compulsione natalizia, invece, assume connotazioni più altruistiche dove chi ne sarà il beneficiario è il parente o l’amico. Essa è una patologia di gruppo o, meglio, di massa governata dalla tradizione. E’ l’unica “patologia” che la società non vuole e non può curare.