Se ne è andato anche l’ultimo amico nostro. A 88 anni è morto Gastone Moschin, l’attore che è entrato nel nostro immaginario (comico e amaro) collettivo con l’architetto Rambaldo Melandri, compagno di zingarate con i suoi inseparabili quattro amici. Gastone è stato un attore di grandissimo valore, uno dei più importanti e poliedrici della nostra cinematografia.
Venne soprannominato il “signore del cinema italiano”, per il suo stile elegante, per la raffinatezza delle sue caratterizzazioni.
Poliedrico come nessun altro nella sua capacità di passare da un genere all’altro senza mai fossilizzarsi in una sola tipologia di ruoli o di film. Attore di superbo talento, forse nessuno come lui, è stato in grado di sfornare tanti personaggi memorabili, rimasti nella memoria collettiva. Oltre 70 film interpretati nella sua gloriosa carriera ed una miriade di personaggi italici disegnati alla perfezione. Tra i tanti, bisogna citare due titoli su tutti, quelli che insomma possono essere definiti i suoi film della vita: “Signore e signori” (1966) e “Amici miei” (1975), quest’ultimo film darà poi vita a due seguiti. Sarà proprio la saga delle avventure degli “Amici miei” e lo splendido ritratto della provincia veneta di “Signore e signori”, a regalargli i due Nastri d’argento della sua carriera.
Ma Gastone Moschin, è stato anche molto altro. I generi e le tante interpretazioni sublimi si sprecano, come quella del bieco Don Fanucci nel “Padrino II” (1974). Nel 1972 è l’ambiguo Ugo Piazza del celebre noir “Milano calibro 9”, di Fernando Di Leo, con al fianco Barbara Bouchet e Mario Adorf, uno dei film capostipiti del genere poliziesco. Lo stesso anno sostituisce Fernandel in “Don Camillo e i giovani d’oggi”. Nel 1973 è un convincente Filippo Turati ne “Il delitto Matteotti”. Nel 1974 interpreta il crudele bandito detto Il Marsigliese nel poliziesco “Squadra volante” di Stelvio Massi, con Tomas Milian e Mario Carotenuto. Il personaggio del Marsigliese avrà successo tanto da essere citato in varie forme in numerosi polizieschi successivi. È ad ogni modo un ruolo brillante quello a cui Moschin deve la popolarità maggiore, vale a dire il ruolo dell’architetto inguaribilmente romantico Rambaldo Melandri, protagonista, al fianco di Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Adolfo Celi e Duilio Del Prete, della saga di “Amici miei”.
Il primo film, diretto da Mario Monicelli, esce nel 1975 e si classifica al primo posto negli incassi della stagione. Il progetto di «Amici miei» (1975) apparteneva a Germi che morì poco prima dell’inizio delle riprese, lasciando la regia a Monicelli. Ma il vuoto rimase, il lutto aleggiava, la vita riassunto di commedia e tragedia. Lo aveva raccontato lo stesso Moschin in un’intervista: «È un film che fa ridere, ma non è comico. È velato dalla malinconia della mancanza di Germi, che a volte pervadeva il set. La malinconia della domenica sera in attesa del lunedì, come nella scena delle giostre, dove facciamo i conti con il ritorno, il giorno successivo, alla vita reale».
Fu un successo strepitoso e inaspettato quello dei cinque indivisibili amici fiorentini, intelligenti e cialtroni allo stesso tempo, ritratto di molti italiani: il conte Mascetti (il nobile decaduto interpretato da Tognazzi), il Perozzi (Philippe Noiret, giornalista più attento alle donne che alle notizie), il Sassaroli (uno strepitoso Adolfo Celi, brillante e annoiato chirurgo), il Necchi (Duilio Del Prete) che gestisce il bar dove i 5 si incontrano. E poi lui, il Melandri, architetto con poche aspirazioni, se non quella di trovare finalmente una donna, per cui sarebbe stato anche disposto ad abbandonare i suoi amici. Ma non lo farà mai. Gli italiani corsero in massa nelle sale: oltre 10 milioni di spettatori con due sequel, nel 1982 (sempre Monicelli) e poi nel 1985 (quando la regia passò a Nanni Loy). «E chi poteva immaginare che il film sarebbe diventato una specie di mito? — ricordava ancora Moschin —. Credo sia stato possibile per la freschezza della sceneggiatura, la felicità della scrittura che prendeva spunto da episodi accaduti davvero o che si raccontavano nei bar. Erano anni diversi, era un’Italia nella quale si poteva ancora ridere». La situazione poi è cambiata: «L’Italia non mi sembra più un Paese per le zingarate mentre di supercazzole ne vedo ancora tante, ma quelle ci sono sempre state».
Insomma, quello dell’architetto Melandri, è per Moschin il ruolo che lo ha reso immortale. Oggi ci sentiamo tutti un po’ più vuoti, tristi, perché Gastone era rimasto non solo l’ultimo in vita degli “Amici miei”, ma era l’ultimo vero grande del nostro cinema, l’ultimo superstite di una stagione irripetibile, poetica, gioiosa della nostra società. Un magone in gola ci pervade, mi pervade, perché la sua morte segna un po’ la vera fine di un’epoca, iniziata nel lontano 1967 con la morte di Totò e protrattasi nel corso degli ultimi 50 anni.
Ciao Gastone, oggi ci sentiamo tutti un po’ Melandri, ma ci sentiamo un po’ tutti “Amici tuoi”.