Paolo Villaggio era uno di quei personaggi familiari, eterni, che conoscono anche le pietre.
Paolo Villaggio era l’italiano del ‘900, era l’ultima grande Maschera del nostro cinema, era il re del paradosso. Paolo Villaggio ha rappresentato le mille anime dell’Italia post-boom economico, quella che si affacciava agli anni ’80, con convinzione, con coraggio, con determinazione. Fantozzi, Fracchia, il professor Kranz, erano tutte facce della stessa medaglia, tutte sfaccettature di un attore intelligente, che sapeva i gusti del pubblico e ne coglieva alla perfezione i mille tic, così come aveva fatto qualche anno prima il Sordi nazionale. Villaggio lo fa però, esagerando i caratteri grotteschi dell’italiano medio, raccontando l’Italia, in maniera ancora attualissima: è con queste caratteristiche che si afferma e arriva immediatamente nel cuore della gente, la figura del ragionier Ugo Fantozzi, innegabilmente il capolavoro di Paolo Villaggio.
Quella di Fantozzi è una maschera che rimarrà indelebilmente appiccicata addosso al Villaggio attore. Così come il principe De Curtis non poteva fare a meno di Totò, cosi Villaggio dal 1975 in poi, non potrà fare a meno di Fantozzi. E’ la sua fortuna, il suo trionfo. Si registrano in 25 anni, dieci film della serie dedicata a Fantozzi, due invece sono quelli incentrati sulla figura del timido Giandomenico Fracchia. Ad un certo punto Villaggio, si divide tra Fantozzi e Fracchia, l’artista (e chi lo mette sotto contratto) comincia a sfruttare sistematicamente la sua comicità in una serie ininterrotta di “pellicole cloni”, dove l’attore ha modo di ribadire mimica e gag dei suoi personaggi. Così come Totò era sempre Totò in ogni personaggio rappresentato, così Villaggio, in tutte le parti indossate, oscilla costantemente, tra Fracchia e Fantozzi: è l’apoteosi della sua Maschera. E da questa serie di film, possiamo dire anche “ripetitivi”, che fuoriesce la sagacia e l’intelligenza di un attore, che a differenza di altri non diventa schiavo della sua maschera, ma la utilizza, ad un certo punto, per diventare attore a tutto tondo.
E lo fa in grande, con il Maestro dei Maestri, ovvero con Federico Fellini, che disegna magistralmente su di lui, un film folle, uno strepitoso elogio alla follia, che è anche una satira della volgarità dilagante di fine secolo. La voce della luna (1990) dà l’occasione a Villaggio di ricevere il primo David di Donatello, come migliore attore, e gli apre le porte del cinema d’autore. La partecipazione al film di Fellini segna per il comico genovese l’inizio di una parallela attività nel cinema d’autore, lavorando con altri importanti registi.
Sublime risulta in tal senso, Io speriamo che me la cavo (1992), pellicola diretta dalla cineasta romana Lina Wertmüller. Il film è un affresco sul disagio economico del Sud ed è tratto dall’omonimo bestseller di Marcello D’Orta che raccoglie temi scolastici di una terza elementare di Arzano (Napoli). La figura del maestro, assente nel libro, diviene, sullo schermo, il filtro attraverso il quale i piccoli esprimono la loro visione del mondo, e la realtà di degrado in cui vivono. Il Maestro è ovviamente Paolo Villaggio, che dona al professore tratti di incredibile e straziante comicità amara, sguardi, gestualità e tonalità di voce estremamente diversi dai film a cui eravamo abituati. E’ la rivincita dell’Attore sulla Maschera.
E questa carriera parallela di attore a tutto tondo, continua con Il segreto del bosco vecchio (1993), di Ermanno Olmi, (tratto dal libro di Dino Buzzati), con cui vince il Nastro d’argento, come migliore attore e Cari fottutissimi amici (1994), di Mario Monicelli, presentato al Festival di Berlino nel 1994 e vincitore di un Orso d’argento, nella sezione menzione speciale.
In questi anni anche la critica specializzata si accorge di lui. E’ del 1992 infatti, il premio più prestigioso della sua carriera e avviene per merito del regista Gillo Pontecorvo, allora direttore della Mostra del cinema di Venezia che decide, nel 1992, di premiare l’attore con il prestigioso Leone d’oro alla carriera. Anni dopo, ai microfoni del Corriere della Sera, l’artista dichiarerà: «In seguito lo vinsero anche Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Ma io fui una rottura assoluta. Era la prima volta che si premiava un comico». Infine, degli oltre 70 film interpretati da Paolo Villaggio, va ricordata la serie ispirata alle comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy, interpretata insieme a Renato Pozzetto: “Le comiche, Le comiche 2, Le nuove comiche(1992-94). I tre film, ottennero un grande successo di pubblico, ma piacquero molto anche alla critica, che lodò, di entrambi gli attori, la primordiale carica comica, avulsa da qualsiasi logica, quasi fumettistica, un po’ slapstick e un po’ paradosso.
E di Villaggio rimane l’amor di popolo, il grande affetto di una nazione intera che si riconosce nei suoi personaggi, nelle sue maschere e nella sua gestualità. Indubbiamente con la morte di Paolo Villaggio se ne va un pezzo di storia del nostro Paese, uno degli artisti italiani più influenti del ‘900, al livello di un Totò, di un Mastroianni o di un De Sica, per la capacità di descrivere l’Italia e gli italiani meglio di qualunque trattato sociologico. Per Paolo Villaggio andrà esattamente come per Totò, i suoi film saranno rivalutati e il suo nome rimarrà per sempre, sfidando lo scorrere impetuoso del tempo e degli anni.