Il 18 febbraio del 1940, nasceva a Genova Fabrizio Cristiano De Andrè, secondogenito di una famiglia borghese di origini piemontesi.
Nonostante ci abbia lasciato prematuramente a causa di un carcinoma polmonare, resta immensa la sua produzione letteraria e musicale, ben 14 album e diversi singoli, senza contare, la miriade di scritti ed appunti ancora gelosamente custoditi dalla sua famiglia.
Era infatti, appena iniziato il 1999, quando Fabrizio De Andrè, terminò il percorso della sua vita terrena per diventare immortale con la sua musica e la sua poesia, lasciando però, orfano, il panorama musicale italiano che perdeva un grande cantautore.
Oggi, a molti anni dalla sua morte, ci si interroga sull’immensa eredità che Faber ci ha lasciato e come questa abbia influenzato quello che i critici musicali definiscono, il nuovo cantautorato italiano.
Innegabile è che questo grande intellettuale, perché chiamarlo solo cantautore, sarebbe davvero riduttivo, abbia lasciato un’impronta indelebile nella storia del nostro paese, modificandone per sempre il modo di fare musica e di utilizzarla come metodo di narrazione.
Mi viene difficile raccontare sua la poetica, se non con le canzoni ed i personaggi a lui tanto cari, come la musica di Georges Brassens, che ispirò il giovane Fabrizio a tal punto che egli stesso lo definì “il mio maestro” e volle eseguire alcune delle traduzioni delle sue bellissime ballate.
Ma il cantautore genovese è ricordato soprattutto per i suoi personaggi, alcune volte irriverenti, altre volte malinconici, e per le tematiche trattate, dall’immigrazione alla prostituzione, dal transgenderismo agli amori impossibili, improbabili o perduti, dalla religione alla politica e dalle condizioni delle carceri alle lotte sociali.
Temi scomodi e di scottante attualità ancora oggi, che negli anni di piombo, convinsero la Polizia a schedare il giovane universitario Fabrizio, come “persona potenzialmente pericolosa”, del resto, mai nessuno nel panorama musicale, ha colpito così tanto l’immaginario collettivo, a tal punto, da confondere persino ligi agenti al servizio dello Stato.
Se si chiedesse di descrivere a dei passanti chi sia stato De Andrè, ognuno darebbe la sua personale definizione, dal rigattiere alla massaia, dal critico musicale al colto; è stato definito cantautore, filosofo, poeta, intellettuale ed anarchico, e probabilmente, era ognuna di queste cose.
Personalmente, non credo che esista un unico modo di raccontare la musica di De Andrè, riuscire a spiegare a chi non l’ha conosciuto, chi fosse e quale patrimonio culturale ci abbia lasciato, non credo neanche che lo si possa spiegare, perché ognuno ha il suo particolare percorso di ascolto e comprensione.
Tutti abbiamo ascoltato, almeno una volta, capolavori come “Bocca di Rosa”, “Don Raffaè”, “Il Pescatore”, “La canzone di Marinella”, “Le Passanti”, “Canzone del Maggio” o “Via del Campo”, solo per citarne alcuni, ma per comprenderne fino in fondo il suo messaggio, non basta ascoltare distrattamente, bisogna aprire l’anima, lasciare posto alle riflessioni autentiche e scevre dai giudizi politici, religiosi o ideologici, per comprendere le canzoni di De Andrè, bisogna viverle, ci si deve appassionare ai personaggi, alle storie, ai luoghi.
Quello che so, è che ascolto le sue canzoni da quando ero bambina, ma solo con la maturità, credo di avene compreso il senso ed aver percepito il grande vuoto ideologico, culturale e politico in cui ci abbia gettato in quel freddo gennaio del 1999.
Avevo vent’anni nel ‘99, e ricordo ancora lo sgomento della mia generazione all’apprensione della sua morte, ci sentimmo privati di un padre, di un amico, di un fratello, ma soprattutto di una guida, forse è per questo che ancora oggi, a distanza di tanti anni, la sua musica è così attuale e viva, perché manca ancora un modello a cui ispirarsi.
Lo dimostrano i follower sul canale Spotify, circa 386.000 con circa 672.000 ascoltatori solo nell’ultimo mese, numeri che fanno impallidire cantautori contemporanei a De Andrè e che sono ancora in attività, lo dimostrano le migliaia di giovani e meno giovani che spontaneamente, la sera dell’11 gennaio hanno affollato le principali piazze italiane e cantato tutti insieme quelle stesse canzoni di Faber e che ormai, sono patrimonio di tutti.
Sentimento nostalgico? Evento alla moda amplificato dai social? Non credo!
In fondo, le storie raccontate da De Andrè, sono ben lontane dal modello comune attuale che ci vuole vincenti e forti, dove non c’è tempo per sbagliare, sono storie di umili, di vinti, di ingiustizie, di fragili, di smarriti.
Probabilmente, le cosiddette “cantate anarchiche” e spontanee, altro non sono che un abbraccio collettivo, un autentico tributo a chi con la sua musica, continua ad emozionare milioni di persone.
In un modo di relazioni virtuali, a dispetto di chi trae vantaggio dalle divisioni, sono desiderio effettivo di condividere, di incontrarsi, di sentire, di riflettere, “come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere”.