Da sempre il Cinema ha subito continue influenze derivanti dai molteplici cambiamenti della società, che si sono sviluppati nell’arco dei suoi 120 anni di vita. L’arte cinematografica appare dunque come un’arte alla continua ricerca di nuovi stimoli e territori da esplorare. Il cinema mondiale infatti, già da qualche anno ha rivolto spesso la propria attenzione a quello che, da un punto di vista sociologico, è di gran lunga il fenomeno di maggior rilievo da almeno un decennio a questa parte: la diffusione dei social network e il ruolo preponderante che la comunicazione via internet ha assunto nella nostra esistenza. Internet, del resto, costituisce uno degli aspetti fondamentali della nostra vita quotidiana: per molti di noi a livello professionale, per quasi tutti noi pure nelle relazioni sociali, che volenti o nolenti oggi passano in gran parte (in alcuni casi, soprattutto) attraverso la rete. E il cinema, ovviamente, non poteva non essere contagiato da un elemento tanto importante, se non addirittura emblematico della nostra epoca.
La curiosità del cinema nei confronti della realtà virtuale di internet (e dell’area social nello specifico) ha abbracciato generi diversi, dal dramma alla commedia, passando anche per l’horror. Nel 2010 ad esempio, nel pieno dell’esplosione della popolarità di Facebook, il regista giapponese Hideo Nakata, ha realizzato un thriller dall’ambientazione assai atipica: I segreti della mente. Il film si svolge quasi del tutto all’interno delle chatroom. Aaron Taylor-Johnson interpreta il ruolo di William Collins, adolescente di Chelsea, disadattato e con tendenze autolesioniste, che decide di sfogare la propria depressione nel dialogo virtuale con quattro suoi coetanei sconosciuti; ma il tentativo di condividere i rispettivi problemi sfocerà in un meccanismo di sudditanza psicologica gravido di rischi.
Parlando di cinema, internet e social media, un’altra tematica verso cui diversi film hanno puntato lo sguardo è la voglia di essere notati e di apparire esattamente il contrario di quello che siamo nella vita reale: quella bizzarra commistione fra la volontà e l’esigenza di aprirsi a un ‘auditorio’ quanto più vasto possibile e le barriere di una solitudine che, talvolta, la rete non fa altro che accentuare. Questo è uno degli aspetti rintracciabili, nel capolavoro dedicato al fenomeno della socialità in rete: The Social Network, il film del 2010 di David Fincher sceneggiato da Aaron Sorkin e ricompensato con tre premi Oscar. Se The Social Network costituisce una sapiente ricostruzione della nascita di Facebook e un intrigante ritratto del suo creatore, il giovane e ambizioso Mark Zukerberg (Jesse Eisenberg), il valore della pellicola va al di là della cronaca di una svolta epocale per il nostro stile di vita: perché all’interno del film si può cogliere pure una riflessione amarissima sui social media come compulsiva forma di reazione ad un senso di isolamento, di alienazione e di rifiuto contro il quale, però, non basterebbero neppure cinquemila “amici”, giusto per parafrasare il limite di amicizie per ogni profilo su facebook.
Dall’ambito della socialità sul web ci spostiamo ora verso fenomeni pur sempre collegati ad internet come “villaggio globale”, in cui la riservatezza- e la segretezza – sono beni preziosi nonché oggetti di violazioni e diffusioni indesiderate. E il cinema dell’ultimo lustro ha affrontato questo peculiare aspetto nelle maniere più differenti, dalla docu-fiction alla comicità, dai pubblici scandali sulla politica mondiale ai piccoli scandali di singoli individui. A tal proposito molto riuscita appare la commedia Sex Tape – Finiti in rete (2014), per la regia di Jake Kasdan, che getta uno sguardo sulla moda dei filmini erotici “fatti in casa”, con Cameron Diaz e Jason Segel nei panni di una coppia che, per errore, diffonde sul web un video osé che sarebbe dovuto restare privato.
Interessante anche Friend Request (2016), che parte da interrogativi che tutti coloro che frequentano i social network si sono posti (o dovrebbero porsi) più e più volte: qual è il “codice di comportamento” più corretto laddove le nostre interazioni con l’altro sono filtrate interamente attraverso internet? E in quale misura una richiesta d’amicizia approvata o respinta può influire sulla nostra privacy e sul modo in cui scegliamo di ‘proporci’ al mondo esterno?
Concludiamo il saggio con un film tutto italiano, ovvero il nostrano Perfetti sconosciuti (2016) che getta uno sguardo terribile e aberrante sui piccoli, grandi, meschini segreti che ognuno di noi nasconde tra smartphone, facebook e watshapp. Il concetto del film di Paolo Genovese si riassume tutto in questa frase: “Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell’altro?” È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l’utilizzo “ludico” dei nuovi “facilitatori di comunicazione” – chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social – a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I “perfetti sconosciuti” di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c’è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell’altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l’allargarsi dei cerchi nell’acqua di questi “giochi” finisca per rivelare la “frangibilità” di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe “conversazioni”: l’eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch’esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale.
Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa). Il tono è adeguato alla narrazione: non farsesco, non romanticamente nostalgico, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa “cena delle beffe” attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C’è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il “gioco” (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l’ipocrisia e l’accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri “frangibili”.