Cinema italiano, politica e censura

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cinema, politica e censura- foto n.1Nel rapporto ormai centenario tra Cinema e Politica, ha sempre avuto una posizione predominante la cosiddetta censura cinematografica. Un istituto quello della censura, che mai come in Italia, in 100 anni di storia, è riuscita a segnare profondamente il nostro cinema, attraversando le epoche, i regimi, gli anni della democrazia cristiana, la liberalizzazione post-sessantottina, i “mitici” anni ’80 arrivando fino ai giorni nostri. La storia di un istituto che ha visto nel corso degli anni, allargare sempre di più le sue maglie austere che hanno imbrigliato il cinema soprattutto a cavallo degli anni del regime fascista, fino agli inizi degli anni ’60. Ma la censura è stata quasi sempre un mezzo di ingerenze politiche essendo il complesso di procedimenti attraverso il quale una autorità o un ente attuano il controllo preventivo, in itinere, o successivo all’ uscita di un’opera cinematografica, limitando o negando la sua proiezione in pubblico. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l’ordine pubblico.

Una scena del film Sciuscià del 1946 di Vittorio De Sica.
Una scena del film Sciuscià del 1946 di Vittorio De Sica.

E così produttori, registi e sceneggiatori hanno sempre dovuto averci a che fare, e in alcuni casi i più scaltri, impararono anche a confrontarsi. Numerosi sono i mezzi con cui operava la censura democristiana: dal ritardo nella concessione del visto per l’esportazione (“Sciuscià-1946, di Vittorio De Sica), al fermo in tutte le sale cinematografiche (“Adamo ed Eva”-1950, con Macario) in virtù dei tabù religiosi e di scene che rappresentavano donne in abiti succinti. Era l’Italia morale e moralizzatrice dei primi anni ’50, quando un bacio non poteva durare per più di tre secondi e le parolacce erano completamente bandite, come anche i nudi di donna. Lo spettacolo tuttavia, tentava ogni tanto di prendersi timide vendette. All’amante del suo predecessore Pepé, che risentita delle sue domande in atteggiamento comicamente pretesco gli chiede “Ma che fai?”, Totò le Mokò risponde: “Il democratico cristiano: censuro la tua anima”, assolutamente geniale! Era il 1949 di “Totò le Mokò”, una delle migliori totoate in assoluto.

cinema, politica e censura- foto 5 ( Totò le Mokò)L’asfissiante censura cinematografica, che nella maggior parte dei casi coincideva con l’effettuazione di tagli censori, che snaturavano il significato intrinseco del film, si sarebbe attenuata a partire dalla metà degli anni ’60. L’allentamento dei freni censori allargò le maglie della censura in maniera definitiva, netta e irreversibile. In quegli stessi anni le ingerenze politiche, non erano finalizzate soltanto nel bloccare eventuali attacchi eversivi scaturiti dalle pellicole, ma in alcuni casi le pellicole stesse erano finanziate o create dalla politica stessa.

cinema, politica e censura-foto n.2 ( locandina Ho scelto l'amore)Il caso più importante, e forse anche il più misconosciuto, riguarda il film “Ho scelto l’amore”, del 1953, recitato da Renato Rascel e commissionato dalla Democrazia Cristiana, in persona. Stavolta l’ingerenza politica determina il risultato della pellicola stessa, non deve intervenire per evitare che ciò avvenga. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene ( guarda caso ) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana. Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese ( l’Italia ) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo-americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50.

Il regista Elio Petri.
Il regista Elio Petri.

Negli anni ’70, con l’allentamento definitivo dei freni censori, non è più la politica a condizionare le opere cinematografiche con l’istituto della censura, ma è il cinema che si erge a denunciare le corruzione dilagante della politica stessa. Il cinema d’autore degli anni ’70 effettua il proprio percorso affrontando tematiche differenti. Dalle regie di Maestri come Francesco Rosi e Elio Petri. si emancipa una nuova visone autoriale che vede nel cinema un mezzo ideale per denunciare corruzioni e malaffare, sia del sistema politico che del mondo industriale. Nasce così la struttura del film inchiesta che partendo dall’analisi neorealista dei fatti, aggiunge a essi un conciso giudizio critico, con il manifesto intento di scuotere le coscienze dell’opinione pubblica. Tale tipologia tocca volutamente questioni scottanti, spesso prendendo di mira il potere costituito, con l’intento di ricostruire una verità storica il più delle volte negata o celata. Il simbolo attoriale di tale genere, diventa Gian Maria Volonté, che con la sua recitazione duttile e spontanea, conquista le platee italiane.

Il grandissimo attore Gian Maria Volontè.
Il grandissimo attore Gian Maria Volontè.

Uno dei punti di arrivo del percorso artistico di Francesco Rosi è senz’altro Il caso Mattei (1972); un rigoroso documento in cui il regista cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei, manager del più importante gruppo statale italiano: l’Eni. La pellicola, con Gian Maria Volonté protagonista, vince la Palma d’oro al festival di Cannes e diviene un vero modello per analoghi film di denuncia civile prodotti nei successivi decenni. Ormai Gian Maria Volontè è l’attore più richiesto da entrambi i registi ed è assolutamente strepitoso nel film di Elio Petri, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”(1970), il capolavoro del genere, che vinse l’Oscar come miglior film straniero. Volonté ottenuta la notorietà (Felice Laudadio lo definì “il più grande attore italiano del suo tempo”), decide di dedicarsi ad un tipo di cinema politicamente impegnato, recitando nel corso degli anni ’70 e ‘80, in film come “Uomini contro” di Francesco Rosi (1970), “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo (1971), “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio (1972), “Il caso Moro”(1986), di Giuseppe Ferrara. Ma è soprattutto con Petri e con Rosi che Volonté ha modo di esprimere in piena libertà il suo talento, dando vita ad una miriade di “uomini illustri” rappresentanti una dura critica alla classe dirigente dell’epoca, divenendo quindi un punto di riferimento del cinema d’impegno civile italiano. Parallelamente alla sua carriera d’attore, Volonté vi accosta un assorto attivismo politico portando avanti numerose battaglie, manifestazioni e scioperi per i diritti dei lavoratori.

Il rapporto tra Cinema e Politica dunque, ha attraversato anni di scontri, collaborazioni, tagli censori, ed è per gli studiosi una vera e propria miniera, per capire la società italiana attraverso il Cinema, che come è noto è lo “specchio della società”.

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