Facciamo un piccolo gioco mentale, un esercizio di memoria.
Chiudete gli occhi e pensate (o, se siete molto giovani, immaginate) al mondo di circa 20 anni fa. Diciamo che siamo tra la metà del 2003 e l’inizio del 2005.
L’economia mondiale deve ancora riprendersi del tutto dallo scoppio della “bolla delle Dot-Com” avvenuto nel 2000.
Ma il web, in quegli anni, da una prima fase “statica” stava diventando “dinamico”. Grazie a una serie di conferenze tenute negli USA tra il 2004 e il 2005, il grande editore americano O’Reilly Media cercò di spiegare le nuove opportunità che la rete Internet e il web, in particolare, mettevano a disposizione degli utenti. È proprio durante questi incontri che venne coniato e ufficializzato il concetto di Web 2.0.
Questo nuovo web dinamico permette, tra le altre cose, un’interazione immediata fra gli utenti della rete, che in quegli anni crescono vertiginosamente.
Ma il Web 2.0 è quello che, nell’immaginario tecno-digitale popolare, è legato alla diffusione dei blog e dei primi social network di grande successo.
I blog, o meglio i Content Management System (CMS), vedono come primo e più rappresentativo WordPress, creato da Matt Mullenweg, la cui prima versione viene rilasciata il 27 maggio 2003.
I social network avevano mosso i primi passi già nel 1997 con il lancio della prima vera rete sociale, SixDegrees, ideata da Andrew Weinreich, che si ispirò alla teoria dei sei gradi di separazione studiata nel 1967 dallo psicologo di Harvard Stanley Milgram. Secondo questa teoria, tutti gli esseri umani sono connessi tra loro attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari.
Ma fu con l’avvento di MySpace e LinkedIn nel 2003 e, soprattutto, di Facebook nel 2004 – il primo vero social network dal successo planetario – che il fenomeno delle reti sociali esplose veramente.
Negli stessi anni, per la precisione nel 2005, nasce anche la piattaforma di video sharing più celebre e diffusa al mondo: YouTube, lanciata dai suoi creatori Chad Hurley, Jawed Karim e Steve Chen (tre ragazzi che avevano lavorato per PayPal) il 14 febbraio 2005.
Insomma, poco meno di tre anni hanno letteralmente trasformato e sconvolto le nostre vite.
In questo stesso periodo, che vede la massiccia diffusione degli utenti di Internet e l’affermarsi dello standard di telefonia mobile UMTS (3G) – grazie al quale i cellulari (che non sono ancora smartphone) cominciano, anche se lentamente e a costi elevati, a connettersi alla rete – nasce sostanzialmente il mondo contemporaneo.
E adesso apriamo gli occhi e guardiamoci intorno.
Tutti gli attori principali di quegli anni – WordPress, LinkedIn, Facebook e YouTube – hanno dai 20 ai 22 anni e sono, se possiamo usare questo termine, diventati strumenti maturi, forse addirittura adulti.
E noi che li usiamo, a seconda della nostra generazione di appartenenza, da 20, 10 o 5 anni, siamo cresciuti e diventati maturi anche noi?

Oppure, a differenza dei nostri strumenti, che abbiamo contribuito a modellare, ci siamo involuti e, come utenti, siamo diventati più piccoli, immaturi, capricciosi e ingenui rispetto al passato?
La risposta a questa domanda – alquanto retorica – è scontata.
Il web e i social, in particolare, sono permeati a tutti i livelli di disinformazione, fake news, odio e rabbia. Per molti, me compreso, è stato principalmente l’uso indiscriminato e poco consapevole di questi strumenti a portarci alla situazione attuale.
Non solo siamo diventati tutti più creduloni e manipolabili, ma ignorando il funzionamento degli algoritmi, crediamo che le bacheche dei nostri profili social rappresentino il mondo reale.
Ma non è così. Oggi abitiamo due mondi, entrambi veri e necessari: il mondo fisico e quello digitale.
Il problema è che il mondo digitale ci somiglia sempre di più: i social che usiamo sono pieni di persone che la pensano come noi, che agiscono, sognano, amano e, più spesso, odiano proprio come noi.
Le nostre bacheche sono comfort zone in cui ci sentiamo al sicuro, protetti e circondati da chi condivide il nostro stesso punto di vista. Ma questo è un risultato viziato e falso: gli algoritmi vogliono solo compiacerci, mostrandoci non il mondo reale, ma una utopia, che – come tutte le utopie della storia e della letteratura – nasconde qualcosa di sinistro.
La mancanza di una cultura digitale e di un’educazione all’uso dei social ci ha portato a uno scenario inquietante: tutti noi usiamo più social network (in media 6,7, secondo We Are Social), abbiamo due o più email, gestiamo un blog e utilizziamo diversi servizi di messaggistica.
Eppure, nonostante tutta questa esperienza, cadiamo sempre più spesso vittima del phishing, usiamo ancora password come “123456” e, con l’avvento delle Intelligenze Artificiali Generative, non distinguiamo più un’immagine reale da una falsa, un video autentico da un deepfake, un utente vero da un chatbot.
Insomma, i nostri strumenti preferiti sono diventati adulti, mentre noi, che li abbiamo generati, sembriamo diventati adolescenti o peggio bambini.
Con l’avvento delle AI generative, io, che ho superato i 50 anni, vedo ripetersi gli stessi schemi di comportamento: usiamo ChatGPT, Perplexity, Midjourney e simili senza conoscerne il funzionamento, proprio come 20 anni fa facemmo con i social.
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In poco più di 20 anni, il mondo è passato dall’essere analogico all’essere definito digitale, per poi divenire integrato. Non si fa più distinzione tra offline e online: onlife è la normalità, per usare una bella espressione coniata da Luciano Floridi.
A cosa ci porterà questa superficialità nell’uso di questi strumenti ancora più potenti dei loro predecessori?
Difficile dirlo. Ma una cosa è certa: troveremo il modo di deresponsabilizzarci, dicendo che “non immaginavamo, non sapevamo, non pensavamo, non credevamo”.
Eppure, da McLuhan alla fantascienza, passando per il cinema e i fumetti, ci sono stati dati tutti gli strumenti per riflettere su questo scenario.
Perché, volenti o nolenti, i nuovi algoritmi li plasmeremo noi, con i nostri dati, le nostre abitudini e i nostri comportamenti.
Mai come ora, diventa profetica la massima di Marshall McLuhan, il filosofo e sociologo della comunicazione che già dalla metà anni ‘60 del secolo scorso cominciò a immaginare e teorizzare come la rivoluzione tecnologica avrebbe trasformato il nostro futuro e che disse:
“Noi plasmiamo i nostri strumenti e poi i nostri strumenti plasmano noi.”
Il mio augurio, da techno-ottimista integrato ma un poco preoccupato, è di non dimenticare mai questo insegnamento.