Due interviste, due modalità, due epoche. Dai Club Dogo nel 2010 a Marracash nel 2025: la scelta di raccontarsi fuori dalla bolla

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Due interviste, due modalità, due epoche. Dai Club Dogo nel 2010 a Marracash nel 2025: la scelta di raccontarsi fuori dalla bolla

Era il 17/10/2010 quando i Club Dogo – gruppo iconico della scena rap italiana – vengono ospitati da Daria Bignardi (nota giornalista e conduttrice televisiva) a “Le Invasioni Barbariche” su La7”, a pochi giorni di distanza dall’uscita dell’album “Che bello essere noi” che aveva debuttato in seconda posizione della classifica italiana. Intervista arrivata subito dopo quella del 13 ottobre 2010 sul Corriere della Sera.

 

Parliamo di un’era geologica fa.

Il rap era qualcosa di “nuovo”, i media erano prettamente tradizionali (anche se alcune piattaforme social erano già esistenti da qualche anno), c’era una frattura generazionale tra chi ascoltava “quella musica” e (tutti) gli altri, e il linguaggio rap era qualcosa che i media mainstream faticavano a comprendere (e a darne visibilità). Quell’intervista su La7, a tratti con toni paternalistici, infatti si portava dietro tutte queste dinamiche ed era incentrata su temi “classici” (cfr. cliché) di quel mondo: l’uso di un linguaggio crudo, l’uso delle droghe, le risse, l’omofobia.

A distanza di 15 anni, invece, Marracash – probabilmente l’unico nato in quella scena che ha assunto una voce riconosciuta e ascoltata anche al di là di quel genere musicale –circa un mese fa sceglie un’altra strada: raccontarsi attraverso il proprio canale YouTube e Podcast, intervistato da Francesco Oggiano (giornalista attivo soprattutto nella comunicazione online).

Le due interviste, allo specchio.

Nel 2010 l’obiettivo era ancora quello di “passare” dalla televisione per legittimare la propria popolarità. L’intervista è canonica: studio televisivo, tempi serrati, domande pensate per il pubblico generalista. I Club Dogo si raccontano con spontaneità (quasi si giustificano), ma dentro i codici classici della grammatica televisiva: l’artista è “ospite” e la giornalista “moderatrice” del racconto.

Nel caso di Marracash, il quadro è completamente diverso. L’intervista avviene non in uno studio televisivo, ma a casa dell’artista. Non su un canale televisivo, ma su canali digitali proprietari. Non attraverso un giornalista (una giornalista, nel caso dei Club Dogo) a dettare i tempi con una scaletta ben programmata e servizi video preregistrati, ma attraverso un giornalista con cui conversare senza troppi paletti e sintonizzato sulla riuscita dell’operazione. E ha un titolo: “Fuori dalla bolla”. È l’artista stesso a scegliere il media, a voler dare forma al racconto, per un contenuto nato anche questo, come per l’intervista dei Dogo, a supporto dell’uscita di un nuovo album – “È finita la pace” – e dell’imminente tour negli stadi, ma che tocca ben altro genere di argomenti: l’autocensura, l’attivismo, l’omologazione, l’era dei social, l’ossessione dei soldi, la salute mentale.

Due interviste, due modalità, due epoche diverse che raccontano non solo l’evoluzione di un genere musicale, ma soprattutto della comunicazione, dei media e del nostro modo di fruire i contenuti.

E una scelta chiara. Quella di un artista – Marracash – che ha voluto prendersi la responsabilità di costruire e gestire la propria narrazione. Poteva tranquillamente decidere di andare in televisione (che resta comunque uno dei media più seguiti), magari ospite da Cattelan ad esempio, e di avere magari anche molta più visibilità (al 27/4/25 il video su YouTube conta 257.999 visualizzazioni).

Ha invece deciso che uno spazio televisivo di 20 minuti o poco più, e con una scaletta abbastanza precisa, non era l’ambiente adatto per parlare e confrontarsi su argomenti per lui importanti. Che una conversazione di due ore (lo ripeto, due ore), e non un’intervista tradizionale, era più coerente con i suoi intenti. Che il Dove e il Come, oggi forse più di prima, hanno la stessa importanza del Cosa (se non di più).

Una narrazione autentica, intima, libera, capace magari di intercettare pubblici più segmentati, non generalisti, ma molto più ingaggiati. Una narrazione che non va alla ricerca del consenso di tutti, ma di una connessione profonda con chi vuole davvero ascoltare.

Fuori dalle logiche televisive. Fuori dai dettami dell’algoritmo. Fuori dalla bolla.

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