Ivan Zorico (348)
I numeri, si sa, non hanno colore politico. Sono anonimi. Sono portatori sani di operazioni matematiche, semplici o composte che siano. Poi, ovviamente, è la lettura che ne diamo ed il contesto in cui sono inseriti ad essere sostanzialmente rilevanti. E questo credo che sia abbastanza chiaro per tutti. Affermare infatti che l’UNESCO ha finora riconosciuto 1001 siti (777 beni culturali, 194 naturali e 30 misti) dislocati in 161 Paesi del mondo come patrimonio dell’umanità è, senz’altro, un numero statistico importante ma, al contempo, poco “empatico”. Sottolineare invece che solo in Italia se ne contano 50 e che il nostro Paese è quello che ne detiene il numero maggiore è, indubbiamente, motivo di vanto ed orgoglio. Ma non solo perché possiamo accreditarci come la nazione che più di tutte ospita sul proprio territorio questo grandissimo patrimonio culturale e naturale, ma soprattutto per il valore intrinseco che questo riconoscimento porta con sé: “il patrimonio rappresenta l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future”. E non solo: “I nostri patrimoni, culturali e naturali, sono fonte insostituibile di vita e di ispirazione. Luoghi così unici e diversi quali le selvagge distese del Parco Nazionale di Serengeti in Africa Orientale, le Piramidi d’Egitto, la Grande barriera australiana e le cattedrali barocche dell’America latina costituiscono il nostro Patrimonio Mondiale”. Questo significa che i tesori culturali ed ambientali sono di tutti i popoli del mondo e che, della loro bellezza, se ne devono curare sistematicamente tutti i Paesi per assicurarne la fruizione, la conservazione e la protezione. In un momento storico di divisioni e tensioni geopolitiche, leggere queste parole sicuramente ci restituisce un momento di leggerezza e sottolineano, ancora una volta, la forte capacità inclusiva del patrimonio culturale.
E questopatrimonio gode non solo di tutti gli aspetti valoriali che abbiamo descritto, ma è anche depositario di unvalore economico. Anche qui è facile capire il perché. Ogni anno milioni di persone si mettono in viaggioprima, e in codapoi, per fruire di quelle bellezze che il passato e la natura ci hanno consegnato. E laddove c’è una richiesta ed ovviamente un’offerta (il patrimonio culturale ed ambientale, appunto) c’è un mercato. E se è vero che stiamo in presenza di un mercato, perché non approcciarlo con quelle tecniche e strumenti utilizzati da molto più tempo da altri comparti economici per promuovere e vendere i loro prodotti?
Parliamo quindi di marketing culturale. Molti operatori culturali per anni hanno osteggiato questo binomio linguistico. Il motivo era, ed è, la convinzione, a nostro modo di pensare sbagliata, che dietro questa disciplina ci fosse l’intento di mercificare la cultura. Di abbassarla al rango di mero prodotto da scambiare in un fantomatico “discount dell’arte”.
Così non è. In quel binomio c’è invece la volontà di valorizzare, diffondere e promuovere le bellezze artistiche, creando anche dei posti di lavoro. Ecco perché questo numero tratta di quello che può essere definito il nostro “oro nero”. Quella riserva davvero inesauribile di cui disponiamo e che ancora non sappiamo sfruttare al meglio. Il vero asset strategico su cui il governo dovrebbe investire per creare valore economico, culturale e sociale.