Raffaello Castellano (564)
Come spesso accade nella vita, sono proprio le esperienze all’apparenza più ordinarie (ma solo all’apparenza) che ci chiariscono i concetti, o, per dirla in altro modo, impartiscono le lezioni più pregne e profonde di significati.
Mi spiego meglio: per motivi di lavoro, mi sono trovato a gestire, dall’ottobre 2014 fino ad ora, un Laboratorio Urbano nella provincia di Taranto, sorta di contenitore polivalente atto alla promozione culturale e sociale della comunità, nel quale si sono organizzate diverse iniziative e tipologie di corsi, fra le quali tre edizioni di un Corso Base di Computer della durata di 50 ore, che mi ha visto impegnato anche come docente.
Fra i trenta partecipanti più della metà (il 61%, ad essere precisi) erano ultra 60enni con nessuna conoscenza o con una conoscenza molto limitata del computer e del mondo informatico in genere.
Per chi scrive (ma anche per la mia collega co-docente Maddalena D’Amicis) è stata una vera sfida quella di “comunicare” concetti come hardware, software, periferica, scheda madre, memoria Ram, sistema operativo, cartella, file, documento di testo, Microsoft Word, Microsoft PowerPoint, account, e-mail, motore di ricerca, browser (e chi più ne ha più ne metta) ad un gruppo di persone che poco o nulla sapevano del significato di queste parole e ancor meno di ciò che questi strani oggetti, concetti e programmi potevano fare per loro.
Questi termini, per noi banali e scontati, erano sconosciuti alla stragrande maggioranza dei corsisti, per i quali assimilarli ed usarli ha rappresentato le stesse difficoltà di imparare una nuova lingua.
Spesso lo dimentichiamo, ma al giorno d’oggi ciascuno di noi, o almeno di quella fascia di età che va dai 10 ai 40 anni, conosciamo ed adoperiamo con scioltezza e nonchalance una serie di termini tecnici molto vasta: l’elenco di cui sopra è composto da sole 15 parole, alle quali se ne potrebbero aggiungere almeno una cinquantina, termini che solo 20 anni fa erano appannaggio di uno sparuto gruppo di professionisti informatici sparsi per il mondo.
La rivoluzione digitale in atto ci ha “insegnato” tutta una serie di termini, con le conoscenze e competenze ad essi collegati, rivoluzionando non solo la nostra maniera di comunicare, ma in sostanza la maniera di “comunicarci” al nostro interlocutore.
Ora, con questo non voglio dire che la conoscenza di una cinquantina di termini tecnici ci renda tutti esperti informatici, hacker o attivisti di Anonymous, però, se è vero ciò che diceva il grande filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein – che il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio – e che questo è più importante della sua corretta definizione, ciò significa che ogni qual volta utilizziamo un termine informatico, come ad esempio la parola “browser” sapendo che è quell’affare che permette al nostro computer di accedere ad internet, poco ci importa che la definizione tecnica sia un’altra cosa o che a sviluppare il primo fu Tim Berners-Lee.
Insomma, il dover rendere “potabili” termini complessi ai frequentatori dei corsi mi ha costretto a semplificare, ridurre all’osso, asciugare la mia comunicazione, costringendomi ad usare termini semplici per cose complesse, che oltre a rendere manifesto il significato ai miei interlocutori, in un certo senso, lo ha definitivamente chiarito anche a me.
Questa è la magia della comunicazione, il fatto che è una cosa viva, dinamica e che viaggia sempre nei due sensi.
E se è vero ciò che diceva Wittgenstein, lo è ancora di più ciò che ha detto lo psicologo costruttivista Paul Watzlawick, fra i principali autori di “Pragmatica della comunicazione umana”, ossia che – “l’efficacia di un processo di comunicazione sta nei feedback positivi che ci rimanda il nostro interlocutore” – e che, ancora più importante – “è impossibile non comunicare, giacché il fatto di
