In una società come la nostra – definita “La società dell’informazione” – le notizie e le informazioni sono, evidentemente, il corpo che la compongono.
Il web 2.0 ha rivoluzionato tutti gli ambiti della nostra vita e tutte le attività ad esse collegate. E il mondo dell’informazione forse è stato uno dei primi ad esserne stato interessato. Le leggende (più o meno fedeli alla realtà) dicono che nella metà degli anni ’90 si potevano vedere giornalisti acquistare “furtivamente” riviste tipo “Pc/Internet per tutti” (nome inventato, ma l’idea è chiara) per cercare di capire cosa stava succedendo al loro lavoro e cosa sarebbe cambiato. Altre leggende (di nuovo, più o meno fedeli alla realtà), raccontano che, nei primi anni 2000, i giornalisti della carta stampata non fossero proprio contenti (per usare un eufemismo) di scrivere per il sito internet del giornale per il quale prestavano servizio, perché ritenuta una pratica dequalificante. Miopia? Probabile. Altri tempi? Sicuramente. Anche se parliamo solo di pochi anni fa.
Oggi la situazione è cambiata. E i numeri lo testimoniano. La diffusione dello smartphone, la proliferazione dei social network e il cambio delle abitudini di noi tutti, ci hanno restituito un nuovo mondo dell’informazione, ma non solo.
Per capire meglio come si evolverà il giornalismo e il comparto dell’editoria abbiamo intervistato Pier Luca Santoro, consulente di marketing, comunicazione & sales intelligence, project manager di DataMediaHub.
D. I giornali e il giornalismo stanno vivendo, ormai da diversi anni, una situazione davvero particolare stretti come sono tra il fenomeno delle “fake news” e della cosiddetta “post verità”. Come credi stiano reagendo?
R. Credo che le “fake news” siano una fake news. Infatti stando ai dati di AGCOM, la disinformazione ha interessato l’8% dei contenuti informativi online prodotti mensilmente nel 2018, e, sempre stando ai dati dell’Autorità – vedi: http://bit.ly/2IbBLff– tale incidenza sarebbe ulteriormente in calo. Le “fake news”, di cui sono responsabili ampiamente i media tradizionali, e le loro versioni online, appaiono come uno strumento usato dai mainstream media per cercare di recuperare la credibilità, e la fiducia, persa.
D. Già solo 10 anni fa, per non parlare di anni più addietro, il mondo del giornalismo era composto quasi esclusivamente da lettere mentre oggi non può non integrarsi con i numeri, ossia con l’analisi e lo studio di quest’ultimi. È un processo davvero esistente o in Italia siamo ancora indietro sotto questo punto di vista?
R. In Italia, se si escludono le esperienze del Sole24Ore e di TrueNumbers che però ha delle realizzazioni grafiche basiche, Il data journalism è episodico, usato solo in rari casi, e prevalentemente affidato in outsourcing e non all’interno delle redazioni. Siamo, anche in questo caso, decisamente indietro rispetto ad altri Paesi. Come al solito, se ne parla molto, ma si fa poco, troppo poco.
D. I nuovi media hanno certamente portato dei profondi cambiamenti all’industria dell’informazione, sia dal punto di vista dei modelli di business efficaci e sia nel modo di veicolare le notizie. Come vedi il futuro dell’editoria in Italia?
R. L’organizzazione aziendale pressoché della totalità delle imprese editoriali nostrane ricalca modelli organizzativi degli anni ’80 che le aziende che operano in altri comparti, in altri mercati, hanno abbandonato almeno da un ventennio. È evidente che questo elemento è un fattore di rigidità e genera costi non sostenibili. Inoltre, sta scritto nel primo paragrafo della prima pagina del “bigino” sul management che a una determinata strategia deve necessariamente seguire l’implementazione di un’adeguata organizzazione del lavoro che consenta all’impresa di implementare tale strategia. A queste condizioni, che per quanto riguarda le più importanti realtà editoriali nazionali non paiono mutare a breve, il futuro sarà nero.
D. Parliamo di best practice: ci puoi segnalare un caso di successo in Italia e all’estero?
R. In Italia, seppur in modo diverso, credo che siano esempi di successo Il Post e Fanpage. All’estero Mediapart e Rue89.
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D. Se oggi fossi un ragazzo con la passione del giornalismo, cosa gli consiglieresti di fare (studi, esperienze, etc.)?
R. Io consiglio sempre di studiare antropologia, poichè quando si conosce l’uomo, le persone, si è in grado di lavorare, anche, nel giornalismo. Professione in cui, appunto, ci si rivolge alle persone. Ad integrazione suggerisco di studiare marketing e comunicazione per avere uno sbocco professionale nel brand journalism, poichè non credo ci siano opportunità concrete a breve-medio termine nel “giornalismo tradizionale”.
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