A Roma, in via Fani, la mattina del 16 marzo 1978 un commando delle brigate rosse assale la scorta dell’onorevole Aldo Moro, uccide cinque uomini e porta via con sé il presidente della Democrazia Cristiana. La prigionia dura 55 giorni, durante i quali le Brigate Rosse comunicano con l’esterno attraverso dei comunicati fatti trovare dai giornali e informano dello svolgimento di un processo popolare che vede come imputato Aldo Moro, che verrà condannato a morte. Viene infatti ucciso il 9 maggio e fatto trovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure a pochi passi dall’Altare della Patria. Molti misteri avvolgono la vicenda, ancora oggi a 40 anni di distanza e dopo numerose commissioni d’inchiesta finite con un buco nell’acqua. C’è tutta una letteratura che affronta gli incredibili lati oscuri del sequestro Moro.
Il titolo di un documentario è incredibilmente esplicativo: “La notte della Repubblica”, e rappresenta quella che è ritenuta un po’ da tutti, la pagina più oscura della Repubblica Italiana, anche più del fantomatico golpe Borghese di inizio anni ‘70. Anche il cinema si è occupato a più riprese del sequestro Moro, a partire già dal 1986 con Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, per arrivare al 2003 con Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli e il bellissimo Buongiorno Notte di Marco Bellocchio.
Al centro del film Il caso Moro, c’è sicuramente la grandiosa interpretazione di Gian Maria Volontè, splendido soprattutto durante i dialoghi con i suoi carcerieri. Si tratta di un’interpretazione davvero meravigliosa che aumenta di molto la qualità di un film schematico e dai tratti documentaristici. Si tratta infatti di una puntuale ricostruzione dei 55 giorni del sequestro, molto utile per conoscere i momenti fondamentali di tutta la vicenda. Non ci sono momenti particolarmente “artistici”, se così si può dire. E’ un film austero di un cinema sociale il cui unico scopo è quello di informare, con punte però di grande qualità.
Peraltro lo stesso Volonté aveva interpretato una figura di politico riconducibile ad Aldo Moro, già nel 1976, due anni prima del rapimento del politico pugliese, nel discusso, ma non discutibile Todo Modo, profetico oltre ogni misura. Dal cast stellare, e diretto da un Maestro audace come Elio Petri, il film ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, presenta toni cupi, accentuati dall’ambientazione claustrofobica in albergo-eremo-prigione post-moderno collocato sottoterra, e satirici, nell’intento di fornire una parodia amara e realistica della classe politico-dirigenziale che deteneva il potere in Italia dal dopoguerra: la Democrazia Cristiana. Il film uscì, durante il governo di Aldo Moro, era il periodo in cui si iniziò a parlare di compromesso storico tra DC e PCI). Lo stesso Sciascia, all’uscita del film, ebbe a dichiarare: «Todo modo è un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo. Ed è un processo che suona come un’esecuzione… Non esiste una Democrazia Cristiana migliore che si distingua da quella peggiore, un Moro che si distingua in meglio rispetto a un Fanfani. Esiste una sola Democrazia Cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare definitivamente e radicalmente i conti».
La pellicola, dal marcato sapore espressionista e dall’esplicita vena grottesca, con cui propone la propria visione della DC e della politica italiana in generale, aveva l’obiettivo dichiarato di denunciare la corruzione, il malcostume, l’imperversare di interessi personali nella gestione della res publica italiana, ricorrendo al grottesco come unica arma possibile per denunciare senza incorrere in censure particolari. Il personaggio del Presidente è apertamente calcato sulla figura di Aldo Moro (che, all’uscita del film, era a capo del governo da due anni), pur senza mai nominarlo direttamente; ma la fisicità, il modo di comportarsi ed il ruolo rivestito non lasciano spazio a dubbi in merito. Volontè per quest’interpretazione prese a studiare i comportamenti di Moro, i suoi discorsi, la sua mimica facciale e corporale, l’inflessione della sua voce, la sua vena conciliatrice. Petri ricordò che i primi due giorni delle riprese furono cestinati di comune accordo perché la somiglianza tra i due “era imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco”, considerando che egli non doveva interpretare direttamente Moro, bensì fornirne una maschera, una caricatura, un simulacro. Tra gli altri attori impegnati nel film vi è Marcello Mastroianni, nei panni di Don Gaetano, un prete astuto e calcolatore, molto potente sul piano politico, e anch’egli assetato di potere. Il successivo rapimento e omicidio di Aldo Moro rese di fatto il film politicamente non presentabile, facendolo sparire per molti anni, e lo rese dannatamente profetico.
Calano anni, anzi decenni di silenzio “cinematografico” sulla vicenda, finché a riprendere le redini della storia, ci pensa nel 2003 Renzo Martinelli, con il suo Piazza delle cinque lune, girato in perfetto stile spy story. Il film va alla ricerca delle tesi che più di tutte vanno ad infoltire le teorie dietrologiche, ossia tutte le osservazioni e riflessioni che rendono più spessa la linea d’ombra che grava su tutta la vicenda. Il film parte da un’ipotesi fantastica: un misterioso individuo fa pervenire presso un magistrato sulla soglia della pensione (Donald Sutherland) un documento straordinario: si tratta di un filmato in formato super-8 che mostra proprio il momento dell’assalto e del sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Parte così l’ultima inchiesta del magistrato che la prende come la missione che serve a dare un senso a tutta la sua carriera. Il film è forse quello di più facile visione proprio per il suo stile “giallo” e per il fatto di basarsi interamente sui misteri del caso Moro. Quel che però lo rende inferiore al precedente di Ferrara, almeno sul piano realistico, è proprio la fantomatica ricostruzione del sequestro. Ragion per cui le conclusioni del film, sono dunque frutto della fantasia dei soggettisti e non verità assolute, anche se, a ragion del vero, nemmeno la storia, quella reale, ha fatto chiarezza in questa incredibile tragedia della nostra prima repubblica.
Sempre nella stessa annata esce nelle sale Buongiorno notte, di Marco Bellocchio, ben più riuscito del coevo film di Martinelli. Si tratta di una ricostruzione che dà molto spazio alla fantasia e che culmina nel momento liberatorio finale, con proiezioni oniriche culminanti nell’ipotetica liberazione di Moro (un molto efficace Roberto Herlitzka), provando ad immaginare cosa sarebbe successo se lo statista pugliese fosse stato liberato e quali terribili segreti di Stato sarebbero potuti essere scoperchiati come un moderno vaso di Pandora. Questo film si muove su più piani: la ricostruzione dei momenti della prigionia, i documenti originali che vengono mostrati solo negli schermi delle TV, i momenti di incredibile quotidianità della brigatista donna che lavora in una biblioteca e poi a casa nasconde l’onorevole Moro. Così la quotidianità si mescola con l’ideologia e ne incrina le certezze. Un’altra dimensione è dunque quella femminile, mai affrontata nei film precedenti, e del suo rifugiarsi nel sogno. Un grande tocco d’arte è poi l’inserimento di immagini tratte dalla storia del cinema, immagini in bianco e nero che fungono da poetiche interferenze. Una tra tutte: la scena dell’uccisione del soldato americano tratto da Paisà di Roberto Rossellini. Senza reticenze si tratta di un film bellissimo e assolutamente consigliabile. Un film che va oltre il film e getta un’ulteriore ombra di mistero, sul più grande segreto di Stato della nostra Repubblica, e che i vari Cossiga, Andreotti, Berlinguer, Fanfani, co-protagonisti della oscura storia, si sono portati nella tomba.