I film italiani in sala nel Natale 2018: commedie, film d’azione e graditi ritorni

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Come da tradizione, il periodo di Natale, quello che cinematograficamente va dal 15 novembre al 15 gennaio, è il periodo in cui escono in sala i film potenzialmente di maggior incasso: una vera boccata di ossigeno sia per gli esercenti che per i produttori cinematografici. Storicamente questi 60 giorni sono i più prolifici in termini di presenze a meno di qualche exploit particolare di singoli e specifici film in altri periodi dell’anno. Un Natale che sarà dominato dagli innumerevoli film hollywoodiani, citiamo su tutti “Il ritorno di Mary Poppins”, una rivisitazione dell’originale film della supertata, con Emily Blunt e Meryl Streep. Ma anche il nostro cinema ha un po’ di frecce al suo arco, con gustose commedie, film d’azione e anche alcuni graditi ritorni.

Quest’anno ad aprire la sfida natalizia ci ha pensato il redivivo Leonardo Pieraccioni, che dopo tre anni dalla sua ultima fatica (il mediocre Il professor Cenerentolo), torna in sala con un film, Se son rose…”, che lo riporta quasi alla felice vervè di un tempo. Se son rose… è un film azzeccato, poetico e inusualmente anche un po’ amaro, un punto di nuovo inizio nella carriera pluriventennale dell’attore toscano. Non più giovane, scanzonato donnaiolo, un po’ bambino; ma cinquantenne che si trova a fare i conti con il proprio passato e in fondo anche con il proprio presente. Leonardo è un uomo di mezz’età ostinatamente single che fa il giornalista di successo sul web occupandosi di alte tecnologie e ha una figlia di 15 anni, Yolanda, lascito di un matrimonio naufragato. Yolanda è stanca di vedere il padre nutrirsi di involtini primavera surgelati e crogiolarsi nel suo infantilismo regressivo, e pensa che la chiave di volta possa essere una relazione stabile. Per metterlo di fronte ai suoi innumerevoli fallimenti in materia sentimentale Yolanda decide di mandare a tutte le ex di Leonardo un sms che dice: “Sono cambiato. Riproviamoci!”. E le sue ex rispondono, ognuna secondo la propria modalità. Come premessa comica è curiosa, e ha il potenziale per una di quelle farse alla francese cui il cinema d’oltralpe ci ha abituati negli ultimi anni; eppure Pieraccioni sceglie la strada malinconica unita alla crescita interiore di un personaggio, che forse alla fine sceglie l’amore, quello nuovo, perché tornare indietro “è soltanto una minestra riscaldata”. Tra i punti di forza del film, oltre ad una serie di belle e brave attrici (Claudia Pandolfi, Micaela Andreozzi, Gabriella Pession), la ritrovata vervè vernacolare di Pieraccioni, vero punto di forza del comico. E apre a quella vena malinconica che, in un paio di occasioni (l’incontro con la fidanzatina del liceo, il dialogo finale con l’ex moglie), lascia intravedere qualche sprazzo di autenticità autobiografica e un principio di vera autocritica. La domanda centrale della storia, ovvero “Quando e perché finiscono gli amori?”, nasconde uno strazio sincero, soprattutto nei confronti di un’unione matrimoniale terminata nonostante una figlia molto amata. Considerato che il suo nume tutelare dichiarato è Monicelli, Pieraccioni fa bene ad esplorare il lato amaro del proprio personaggio, smarcandosi dalla melassa, tipica del suo cinema. Se son rose è la riflessione di un Peter Pan sulle proprie responsabilità nei fallimenti sentimentali collezionati nel tempo, ma anche sulla fragilità strutturale di una generazione maschile autocompiaciuta e programmaticamente immatura. Con un po’ di coraggio in più Pieraccioni potrebbe uscire dalla dimensione fintamente fanciullesca ed entrare con successo in quella cinico-romantica alla Bill Murray, versione toscana. La strada è tracciata, e non solo la critica, ma anche il pubblico, dopo anni di mugugni, ha dimostrato gradire questa deriva malinconica e amara del “nuovo” e cinquantenne Pieraccioni, che piaccia o no, uno dei mostri cinematografici italiani più importanti degli ultimi trent’anni.

E in tema di ritorni, questo sembra un Natale cinematografico vecchio stile, come se si tornasse indietro di 13 anni diciamo, a quel 2005 quando la sfida cinematografica natalizia era tra Ti amo in tutte le lingue del mondo (Pieraccioni) e Natale a Miami (ultimo film insieme della coppia De Sica-Boldi, prima della chiacchierata rottura). Già perché la notizia cinematograficamente più rilevante dell’annata venne data a metà giugno: il Corriere della Sera titolò “a dicembre tornano insieme Boldi e De Sica, dopo 13 anni di lontananza”. Un colpo ad effetto e nostalgico della Medusa del Cavalier Berlusconi, di sicuro e prevedibile successo. Il ritorno del “vero” cinepanettone si parlò. E invece il film “Amici come prima”, non è un cinepanettone, sembra più una pochade alla francese, con De Sica quasi sempre travestito da donna, che deve accudire il suo vecchio amico (Boldi) e proprietario dell’hotel di cui era direttore, e lo aiuterà a salvare il patrimonio di famiglia. Che l’intenzione di Amici come prima sia metacinematografica è esplicitamente dichiarato dall’inquadratura finale, una carrellata all’indietro che denuncia la finzione filmica, con tanto di blooper finali. E non è un caso che quei blooper documentino il rapporto di amicizia ritrovata fra Massimo Boldi e Christian De Sica che dà il titolo a questa commedia. Amici come prima porta infatti in dote il loro sodalizio ventennale e il consolidato contrasto fra la milanesità dell’uno e la romanità dell’altro. Dentro a questa storia c’è l’affetto che il pubblico ha tributato per decenni al duo, ci sono l’aspettativa per le linguacce di Boldi e le reazioni fulminee di De Sica (due o tre qui da antologia), c’è la trivialità scatologica e infantile cui ci hanno abituati decine di cinepanettoni, ci sono i botta-e-risposta dal ritmo comico ben rodato. E c’è anche una riflessione autobiografica e dolorosa sulla vecchiaia e la paura di essere rottamati. Non chiamatelo però cinepanettone. Christian De Sica, qui nelle vesti anche di regista e sceneggiatore, ci tiene infatti a precisare che il film non sarà una serie di gag giustapposte l’una all’altra, ma le risate saranno al servizio di una trama ben solida, ispirata alla lunga tradizione della commedia all’italiana. All’inizio il soggetto sarebbe dovuto essere al contrario un film drammatico ma, un po’ per le richieste della produzione, un po’ per il volere dell’attore di lavorare ancora con l’amico, il progetto è virato verso un prodotto leggero natalizio.

Il 10 gennaio, infine, prodotto dal vecchio e leggendario Fulvio Lucisano, uscirà l’attesissimo “Non ci resta che il crimine”, un mix davvero strepitoso, tra Non ci resta che piangere  e Smetto quando voglio. Il titolo è un omaggio all’ironia di Non ci resta che piangere, il crimine invece fa parte del plot. Alla sua sesta prova dietro la macchina da presa, a due anni da Beata Ignoranza e quattro da Gli ultimi saranno ultimi, ritroviamo il regista romano Massimiliano Bruno, classe 1970, che negli anni ci ha abituato a commedie ridanciane con un bel graffio sull’attualità. Come da usanza, nei grandi film italiani degli ultimi anni, anche Non ci resta che il crimine, si serve di un cast corale di mattatori di altissimo livello: dal trio Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, a Edoardo Leo e Ilenia Pastorelli. “Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci resta che piangere, ma lo abbiamo ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo” racconta Giallini, ospite dell’Ortigia Film Festival. “Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno usciamo da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo catapultati in mezzo alla banda vera, esattamente nel 1982 (Edoardo Leo interpreterà De Pedis, ndr) in un salto temporale curioso da oggi a quegli anni lì. Ci sarà parecchio da ridere, ma anche da riflettere”. Un film, insomma, che promette risate e azione stile Smetto quando voglio, ma anche il fascino misterioso dei viaggi nel tempo in grado di attirare l’attenzione del pubblico. Un film destinato a rimanere negli annali: c’è da scommetterci!

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