I miti della genialità: Geni si nasce o si diventa?

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Tratto dalla relazione dell’autore al CicapFest. Il festival della scienza e della curiosità – Padova Settembre 2021.

Con chiunque si discuta, si ha la percezione che tutti abbiano un talento “naturale” in qualche campo della propria vita, che sia legato a capacità cognitive, che si tratti di un’abilità fisica o, addirittura, che riguardi il fatto di saper fare la pizza o il bucato meglio di tutti gli altri. E tutti son convinti che la loro abilità sia una sorta di dono naturale. Guai a metterlo in discussione! Ogni volta che mi è capitato di farlo, è stato come infliggere una ferita narcisistica al mio interlocutore. Perché accade questo? Perché tutto ciò che è innato è, il più delle volte, considerato migliore, misterioso come un vero e proprio dono degli dei. E quando si discute sul genio e talento, nello stesso modo, la maggior parte della gente è portata a pensare, o meglio alla gente piace pensare, che sia un dono naturale presente fin dalla nascita. Questo è il mito del genio, ossia l’idea generalizzata che per eccellere in un determinato campo, che sia culturale artistico e/o sportivo bisogna essere portati, ossia avere un qualcosa in dotazione che ci accompagna da quando siamo nati.

Perché mito?

Perché approfondendo le dinamiche storico-culturali delle persone di successo o di coloro che grazie al loro impegno hanno apportato un importante contributo al mondo, si osserva che la differenza tra loro (i cosiddetti geni) e noi (i cosiddetti comuni mortali) non è qualitativa. Il genio non ha un cervello diverso, né qualcosa di misterioso che lo rende diverso dal mondo intero. Il cosiddetto genio, o meglio “uomo di talento” o il super problem solver sarebbe diventato tale senza il giusto ambiente favorevole, senza le giuste opportunità, senza gli stimoli giusti e senza una serie di vantaggi particolari? Dallo studio del genio, appare proprio di no! E si evince, addirittura, che per formare un genio sono necessari ingredienti di viaria natura che, ovviamente, il più delle volte sono al di fuori del nostro controllo. Tra questi vi sono le occasioni, come ad esempio vivere in un determinato contesto storico/culturale e/o proporsi per un lavoro al momento giusto e incontrare determinate persone nelle circostanze opportune.  Malcolm Gladwel, una sorta di Piero Angela americano, nel suo testo Fuoriclasse (qui trovate la nostra recensione), evidenzia come persone di successo del livello di Bill Gates o dei Beatles non sarebbero mai diventate tali, se non si fossero trovati davanti a una serie di opportunità verificatesi nel posto giusto al momento giusto. Persone con le stesse capacità, molto probabilmente non sono diventate altrettanto famose solo perché non hanno avuto le stesse occasioni e/o opportunità.

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Albert Einstein (1879-1955).

Ma entriamo nel merito dei geni storici per eccellenza e, tra i primi che ci vengono in mente, ci sono Albert Einstein o Amadeus Mozart. Molti pensano che in ogni occasione sarebbero diventati tali grazie al genio che era stato dato loro in dono, ma pochi considerano che gli stessi Einstein e Mozart sono vissuti in contesti che hanno offerto loro dei vantaggi che li hanno portati a diventare geni. Einstein, ad esempio, era figlio di un imprenditore che, insieme al fratello ingegnere, era sempre all’avanguardia sulle ultime scoperte scientifiche e tecnologiche. Andavano a caccia di novità, partecipavano a varie mostre. Lo zio ingegnere influenzò molto il nipote (giocava con lui a risolvere problemi di matematica), così come altre persone che frequentavano la casa del piccolo Albert (zii e amici di famiglia) furono tutte fonti di ispirazione importanti per la sua curiosità e la sua motivazione verso la scienza e la matematica. Questi fornirono i giusti stimoli motivazionali che, secondo alcuni, invece, sarebbero nati dal nulla. Inoltre, quando Einstein lavorava all’ufficio brevetti non era lì a scartabellare tutto il giorno, ma doveva valutare la qualità delle invenzioni. Come si suol dire, sotto l’aspetto scientifico/tecnologico, doveva necessariamente essere sempre sul pezzo! Come nasce quindi la sua teoria che ha rivoluzionato il mondo? Studiando, studiando e, ancora, studiando! Non certo grazie all’ispirazione!

Lo stesso concetto di ispirazione è spesso legato al mito del genio. Essa è considerata come una sorta di illuminazione che arriva dal nulla, o che nasce da un’intuizione scaturita dall’osservazione di qualcosa di apparentemente irrilevante. Pochi sanno che, da un punto di vista psicologico, l’intuizione (o la cosiddetta idea geniale) non arriva dal nulla, ma è preceduta da un processo di preparazione metodologicamente ben preciso: nasce prima un’ipotesi che a sua volta scaturisce da una raccolta di idee derivanti da un determinato lavoro che si sta svolgendo. Prima che arrivi l’intuizione, si pensa al problema, si valutano le possibili soluzioni, le si scartano, si elaborano diverse ipotesi, infine ci si allontana apparentemente dal problema ma esso, nella mente, continua ad aleggiare, spesso anche sotto forma di vera e propria ossessione. E dopo questa attività scaturisce l’illuminazione. Ma non crediate che il lavoro sia finito: tale idea illuminante infatti va messa poi alla prova, ossia viene fatta una verifica e in molte, ma tante occasioni, quell’idea decade inesorabilmente perché si è rivelata fallace o scorretta e, quindi, il tutto si ripete.  Ma nel mito del genio, la sola informazione che passa al pubblico riguarda quell’idea che, finalmente, durante la verifica si è confermata corretta.  Siamo soliti dire: “Ha avuto un’idea geniale”, sì, ma non siamo al corrente del lavoro di verifica, scarto, formulazione di nuove ipotesi, verifica e ancora scarto che l’hanno preceduta.  I fratelli Wright prima di arrivare a realizzare la prima macchina volante procedettero per prove ed errori e non solo, dovettero studiare il lavoro di precedenti ingegneri e inventori che si impegnarono sullo studio del volo con gli alianti. Il caso di dire viaggiarono sulle spalle dei giganti. Non ebbero intuizioni dal nulla, ma effettuarono un percorso di studi prove e verifiche.

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Molti argomenti legati alla natura relazionale, sociale e culturale di un uomo o di una comunità, spesso, sono contornati da un velo di moralismo e/o utopismo che spinge verso una visione alterata delle cose. Noi riteniamo che essi necessitino di una trattazione scientificamente fondata per una loro migliore comprensione e che l’approccio basato sulle scienze psicologiche e antropologiche possa dare un suo significativo contributo

E che dire di Mozart? Già talentuoso così piccolo? Non può essere che un dono! Ne siamo scuri? Chi lo afferma ha forse conosciuto Leopold? L’ossessivo musicista compositore che voleva dimostrare le sue capacità di insegnamento della musica attraverso la bravura dei figli? Forse no. Ebbene Leopold Mozart, padre di Amadeus, sottopose lui e la sorellina ad un duro addestramento musicale fin dalla più tenera età, stimolando in loro la passione per la musica e contribuì così a “costruire” il loro talento. A quanto pare, il desiderio di dimostrare le sue capacità di insegnante, in Leopold, si esaudì in questo modo, ovviamente grazie al suo impegno ossessivo.  E’ facile pensare che sorti simili possano essere accadute ad altri grandi geni musicali. Basti ricordare che Beethoven proveniva da una famiglia di musicisti e compositori fin da ben quattro generazioni. Non occorre aggiungere altro.

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Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791).

Ma sulla base di queste premesse è possibile costruire un genio?

Pare che un certo Laszlo Polgar, psicologo e scacchista ci sia riuscito. Il suo fu definito l’esperimento di Polgar. Quest’ultimo voleva dimostrare che con la giusta educazione e gli stimoli opportuni si potesse “creare il talento” e lavorò proprio sulle sue tre figlie che cominciò ad addestrare al gioco degli scacchi fin da piccolissime. Insegnò loro le strategie più complesse e, quando cominciarono a saper leggere, fece loro studiare tutto sugli scacchi. Come andò a finire? L’esperimento riuscì alla grande. Le figlie sono oggi note scacchiste di talento: fin da piccolissime, portate nei circoli più prestigiosi, riuscirono a stracciare soci professionisti e veterani degli scacchi. La figlia Susi di soli 4 anni era già in grado di battere veri professionisti degli scacchi. Fu la prima donna a ricevere il titolo di Gran Maestro internazionale per poi diventare campionessa del mondo nel 1996. Stesso titolo di gran Maestro ottennero anche le sue sorelle all’età di 14 e 15 anni. Uno straordinario esempio di talento costruito a tavolino.

Ma cosa contraddistingue questi geni? È possibile tracciare dei fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi, come abbiamo visto, sono le opportunità e l’ambiente. Seppur lo studio sia una condizione individuale, lo possiamo annoverare tra i fattori oggettivi, poiché è un fattore determinante e universale per il raggiungimento di un risultato. Lo psicologo Benjamin Bloom dell’University of Chicago in una ricerca su 120 persone eccellenti nel mondo della scienza e della cultura, dimostrò che prima di raggiungere il successo, il loro impegno poteva essere quantificabile in almeno dieci anni di studio prima di essere riconosciuti come fuoriclasse.

 Mentre quelli soggettivi fanno riferimento alla personalità del genio, la sua motivazione, la stima che ha nel suo lavoro e, come afferma lo storico e psichiatra Philippe Brenot nel suo testo Geni da legare, anche in una certa quota di personalità ossessiva.  Un esempio ne era il compositore Chopin, in grado di ricercare la perfezione nella sua musica, rimanendo intere settimane su una sola pagina di scrittura.  La perseveranza è tra gli altri fattori soggettivi.  Bertrand Russell affermò che per la stesura del suo lavoro Principia Mathematica l’impegno fu così tanto da ammalarsi.

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László Polgár.

 A proposito di perseveranza, Alan Shoenfel dell’Universita di Berkeley registrò le azioni di un gruppo di studenti che, a parità di QI e di preparazione, furono posti davanti ad un problema matematico piuttosto complesso.  Egli registrò quanto segue: dopo 5 minuti circa di difficoltà nell’ottenere il risultato, tutti gli studenti si lamentavano, si davano per vinti e, dopo aver intuito che era un compito a loro dire impossibile abbandonarono; tranne una. Una ragazza si impegnò per molto più tempo senza darsi per vinta, ostinata nel risolvere il problema e lo risolse. Ancora una volta abbiamo evidenza che l’atteggiamento verso il problema è decisivo.

C’è un altro mito legato al genio e al successo. Il Quoziente Intellettivo. Indipendentemente dal dibattito sull’intelligenza innata o acquisita (ma immagino che il lettore possa aver intuito la mia posizione), si ritiene che un buon risultato nel campo della cultura e/o della scienza, così come per ottenere un certo successo, sia legato all’intelligenza. Più si è intelligenti (sempre che ci sia una definizione definitiva e universale del concetto di intelligenza) maggiori saranno i risultati.  Almeno questo è ciò che pensava lo psicologo Lewis Terman, lo stesso inventore della famosa scala di intelligenza Stanford. Quest’ultimo selezionò un numero notevole di ragazzi sulla base di un punteggio altissimo ai test di intelligenza e li seguì fino all’età adulta. La sua ipotesi partiva dal presupposto che un QI altissimo fosse predittivo di un successo futuro. La sua ipotesi fu smentita poiché la stragrande maggioranza dei suoi piccoli geni raggiunse livelli normali, paragonabili ai non geni. La cosa interessante è che tra i suoi scarti, perché con un QI troppo basso e quindi esclusi dalla sua ricerca, ci furono due futuri premi Nobel per la fisica. Un esempio, quindi, di ipotesi completamente invalidata. Il QI non è correlato con il successo. Più di recente lo psicologo Kou Murayama ha effettuato uno studio su più di tremila bambini considerati molto capaci in matematica per cercare di capire quanto il loro QI potesse influire sulle loro capacità di apprendimento. Egli evidenziò che il fattore determinante nei loro risultati e sui loro apprendimenti futuri era dettato non dal QI, ma dalla loro forte motivazione e dalla stima nelle loro capacità. Elementi che per definizione sono di certo influenzati dall’ambiente (famiglia e insegnanti). Quando ci troviamo davanti ai cosiddetti bambini prodigio la prima cosa da fare per capire come funziona la loro mente, quindi, non è quella di assumere un atteggiamento improntato a meraviglia e contemplazione, ma di cercare di conoscere il loro ambiente, la loro personalità e il più delle volte, la personalità dei loro genitori.

Questo ci porta all’ultima valutazione di questa trattazione, ossia quella dei “vantaggi cumulativi” cui i cosiddetti talentuosi vanno incontro. In un passo del vangelo di Matteo si legge: “Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. Sì, è esattamente ciò che accade quando si scopre che qualcuno è un po’ più bravo di un altro. L’Effetto Matteo, così definito dal sociologo Robert Merton.

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Robert King Merton (1910-2003).

A quanti è capitato a scuola o in una competizione sportiva, di aver visto dare maggiori attenzioni a chi dava l’idea di saperne un po’ più di noi o che è riuscito a segnare più goal durante una partita di calcetto, o fare più canestri ecc.? E quanti si saranno chiesti se il percorso fatto fare a chi ci ha superati per un pelo (e che li ha portati a diventare uomini e donne di successo) non avrebbe portato anche noi verso gli stessi livelli? Probabilmente con lo stesso percorso sarebbe successo, ma abbiamo avuto la sfortuna che qualcun altro al posto nostro abbia avuto una serie di vantaggi cumulativi scaturiti dalla prima impressione positiva che ha dato. Uno scienziato che ha giù pubblicato avrà maggiori attenzioni e sarà più favorito nel pubblicare altro, un attore che ha partecipato per caso (magari scelto solo perché carino) ad un film di successo avrà maggiori possibilità di essere ancora scelto fino a raggiungere livelli da Oscar. E questo non vuol dire che un suo compagno di provini, meno carino e scartato in quella occasione, non avrebbe raggiunto gli stessi livelli in condizioni più favorevoli. Chi ha vinto un campionato avrà maggiori vantaggi, in termine di scelte e di allenamento, e così via in ogni campo, sia sportivo, che culturale ed economico.

E le ricerche che hanno cercato di trovare correlazioni tra fisiologia (grandezza del cervello, genetica, orecchio assoluto, ormoni ecc) e genio? Beh, hanno trovato correlazioni, ma non certo rapporti causa-effetto. Se consideriamo che la stessa architettura del cervello cambia in base all’esperienza e agli stimoli, allora che utilità c’è nel sapere se il cervello di Einstein fosse più grande o meno rispetto alla norma? Uno studio ha addirittura evidenziato che le aree di quella porzione di cervello adibita all’utilizzo delle dita in un gruppo di talentuosi violinisti erano più sviluppate, dal momento che il loro addestramento erano iniziato in età precoce, quindi tale caratteristica era più la conseguenza che la causa di quell’abilità. Anche la ricerca del gene del genio ha dato risultati negativi come evidenziato da un studio del King’s College London che ha confrontato il genoma di 1409 persone definite eccezionali (QI elevatissimo) con quelle di 3253 persone cosiddette normali.

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Armando De Vincentiis durante la sua confereza sul “Mito del Genio” al CicapFest 2021.

Un discorso a parte va fatto sul mito che vede un profondo legame tra intelligenza, genio e   premio Nobel che, come evidenziato dal chimico e divulgatore Silvano Fuso nel suo testo Strafalcioni da Nobel, non è garanzia né di genio o né di intelligenza elevata.  Basti pensare ai Nobel come Richard Smalley e le sue credenze legate al creazionismo, Charles Richet e lo spiritismo, Alexis Carrel con l’eugenetica e i miracoli, Brian Josephson e il paranormale, Kary Mullis negazionista dell’AIDS e sostenitore dell’astrologia e, in epoca Covid, Luc Montagnier con le sue strampalate teorie su vaccini e virus. Il Nobel è solo il riconoscimento di un duro lavoro, non di una qualità straordinaria di chi lo riceve.

Raggiungiamo la fine di questo discorso, usufruendo proprio della testimonianza di un uomo di talento, a sostegno di quanto affermato Baudelaire scrisse:

Questo genio, se così si può definire quel germe, quell’estro che è proprio del grand’uomo deve, come l’apprendista saltimbanco, rischiare di rompersi mille volte le ossa in segreto prima di esibirsi. L’ispirazione non è che la ricompensa dell’esercizio quotidiano!

Possiamo, quindi, concludere affermando che il percorso di un genio non è qualitativamente diverso da quello del non genio o dal professionista comune, tranne che per un pizzico in più di ossessione, perseveranza e opportunità!

Per approfondimenti

  • Malcom Gladwell, Fuoriclasse, Mondadori, 2013.
  • Michael J.A. Howe,Anatomia del Genio, il Saggiatore, 2003.
  • Philippe Brenoit, Geni da legare, Piemme, 2003.
  • Silvano Fuso, Strafalcione da Nobel, Carocci, 2018.

 

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