Se non fosse scomparso prematuramente, Fabrizio De André oggi avrebbe ottant’anni.
Lui che non amava la tecnologia e non sopportava l’esposizione mediatica, a tal punto da non concedere l’autorizzazione per riprendere i suoi concerti, chissà cosa avrebbe da dire dell’Italia di oggi, in cui la popolarità si misura in “like”, le piazze virtuali hanno soppiantato quelle dove ci si incontrava, le dirette Facebook, sostituito i concerti dal vivo, la musica si ascolta in streaming casuali ed i concept album, nessuno li concepisce più, mentre, le contestazioni sono appannaggio di “leoni da tastiera”.
Così accadeva prima che la pandemia da Coronavirus ci avesse costretti in casa ed accade anche in questo tempo sospeso, in cui restare a casa significa salvarsi la vita e salvarla agli altri.
Eppure, ricordo un tempo recente che oggi appare lontanissimo, in cui la musica di De André, di una sconcertante modernità, riusciva ancora ad affascinare moltitudini di giovani, portandoli in piazza, per cantare, discutere ed incontrarsi.
È successo così, ogni anno in occasione delle “cantate anarchiche” ed è successo anche per la proiezione del film “Fabrizio De André e PFM – Il concerto ritrovato”, nelle sale cinematografiche soltanto per 3 giorni, dal 17 al 19 febbraio, in un momento normale e spensierato, di cinema e locali aperti, la quiete prima del lockdown italiano.
Soltanto 3 giorni, in cui il film ha incassato oltre un milione di euro, registrando più di 100.000 spettatori, tanto da spingere la Nexo Digital a replicarlo l’11 marzo (replica mai avvenuta, a causa dei provvedimenti governativi per fermare l’avanzata del COVID-19) e la Sony Music a commercializzarlo in un cofanetto, in vendita in tutti gli store dal 22 maggio.
Un docufilm, la cui regia è magistralmente curata da Walter Veltroni, che racconta un pezzo di storia della musica italiana, poco conosciuto dalle nuove generazioni e forse dimenticato dalle vecchie.
Dimenticato, come un nastro girato quarant’anni fa in occasione di un concerto, e ritrovato casualmente in un archivio di registrazioni inutili e destinate al macero, solo che, in questo caso, non si tratta della miriade di contributi video che ogni giorno tempestano il web, quella, è l’unica testimonianza di un evento epocale che sovvertì per sempre le sorti della musica italiana, forse per quell’idea rivoluzionaria di mischiare due generi diametralmente opposti o forse perché cambiò il modo di concepire la musica cantautorale.
Probabilmente un ventenne di oggi non ci troverà nulla di rivoluzionario, in fondo adesso convivono allegramente nello stesso brano, trap e canzone melodica e nessuno se ne scandalizza, ma per capire la potenza di questa rivoluzione musicale, bisogna fare un passo indietro lungo quarant’anni, fino al 1978.
Stanno per finire gli anni ’70, ancora non si sente quella spensieratezza che pervaderà gli anni ’80, gli anni di piombo pesano sull’Italia divisa in una serie sterminata di generi diversi, tra cantautori, interpreti, musica pop e musica rock, declinata poi in altri sottogeneri, ognuno con un pubblico diverso e ben definito, binari paralleli, percorsi musicali che non possono, e forse non devono, incontrarsi, in questo clima gli ibridi e le fusioni non sono contemplati.
Questo è lo scenario in cui Fabrizio decide di fare una cosa inusuale ed azzardata per il tempo, colpito dal sound della PFM, acronimo di Premiata Forneria Marconi, invita i componenti della band a casa sua e dopo una serata conviviale, nasce l’idea di realizzare un progetto insieme.
Il progetto in questione, come ogni rivoluzione che si rispetti, incontrerà l’opposizione di tutti, fan compresi, ma segnerà in modo indelebile la storia della musica.
In fondo l’idea è semplice, anche se ancora nessuno ci ha pensato, Fabrizio propone i suoi brani più famosi, arrangiati alla maniera della PFM, molto rock e con dei bellissimi intermezzi musicali, che li arricchiscono moltissimo, restituendo ancora più forza ai concetti e nuova musicalità alle parole, del resto, i musicisti della PFM erano all’epoca, la migliore espressione del panorama musicale italiano e, forse, anche di quello mondiale.
Ancora oggi, è straordinario ascoltarli in quel concerto di Genova, la Genova tanto amata da De André, quella Genova, coacervo di tante storie e culture diverse, che Fabrizio non smise mai di raccontare e, benché è facile accorgersi di trovarsi davanti ad un reperto storico, senza illuminazione adeguata, coreografie spettacolari o tutto quello a cui siamo ormai assuefatti quando ci apprestiamo ad assistere ad un concerto qualsiasi, se chiudiamo gli occhi, possiamo riconoscere la modernità del suono, gli arrangiamenti, la musica e i contenuti, ancora di una impressionante attualità.
Se la musica riesce a rompere il muro del tempo, mostrarsi attuale dopo quarant’anni, siamo di fronte a temi immortali, o la nostra creatività sta scivolando in un lento declino e non riesce a portare musica nuova, non riesce a raccontare ciò che stiamo vivendo, oppure, è la società in cui viviamo che non è affatto cambiata.
Tutto il resto, è il viaggio di un treno tra passato e presente, che Walter Veltroni muove tra memorie ed esperienze dei protagonisti come Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida, Flavio Premoli, David Riondino, Pietro Frattari, Guido Harari, i ricordi ed i racconti dei fan e di colei che da sempre è la memoria storica del vissuto di De André, la compagna di vita, Dori Ghezzi.
Quel treno che ci restituisce una storia dimenticata, un racconto inedito, ma allo stesso tempo, ci permettere di viverlo, di esserne protagonisti, seppur indiretti e scostanti, mentre continuo a chiedermi, chissà cosa avrebbe ancora da raccontarci Fabrizio se fosse qui.
Lui, che da sempre è per me, padre, fratello ed amico; lui, che è sempre presente con i suoi grandi insegnamenti e le sue canzoni, quelle stesse canzoni che dopo quel fortunato, anche se controverso tour, non modificò più e ripropose sempre, o quasi, fedeli a quell’esperienza con la PFM.
Chissà quale valore diede alla memoria, quel giorno in cui acconsentì, diversamente dal solito, a che questo concerto potesse essere ripreso e chissà se mai immaginò, che la sua musica sarebbe sopravvissuta alle sue spoglie mortali o al cellulare seppellito in giardino per affermare concretamente davanti alla sua famiglia, la riluttanza nei confronti delle nuove tecnologie o che dopo quarant’anni, qualcuno che nel gennaio 1979, non era ancora nato, guardando il suo concerto di Genova, avrebbe pensato che, anche adesso, non ci sia niente di meglio da ascoltare, se non le sue canzoni, ed aspetta di ritornare in piazza per poterle cantare ancora.
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