Siamo nella ricca e moderna Corea del Sud, anche se dalle immagini non si direbbe, sembra la più desolata delle periferie orientali, trafficata, sporca, tentacolare e affaccendata. Attraverso una piccola finestra a livello del suolo, entriamo in un angusto e raffazzonato appartamento, ma meglio sarebbe dire tugurio, ed è qui che conosciamo la famiglia Kim, composta dal padre Ki-taek, la madre Chung-sook, il figlio Ki-woo e la figlia Ki-jeong.
Li vediamo poveri, quasi indigenti, alla continua ricerca di piccoli lavoretti temporanei per sbarcare il lunario, o di una connessione internet gratuita a cui connettersi, od ancora ad approfittare della disinfestazione stradale per bonificare “gratuitamente” la loro abitazione.
Insomma, i Kim sono una famiglia al margine, ottimi rappresentanti di quei nuovi poveri, quella moltitudine di individui che cresce in tutto il mondo civilizzato e che la globalizzazione ha lasciato indietro, se non proprio dimenticato.
La vita della famiglia Kim scorre, o meglio si trascina, senza che si intraveda una possibilità di riscatto sociale e/o economico. Nonostante la miseria, li vediamo molto uniti, ancora portatori sani di quella tipica “dignità” orientale e dotati di una vena di furbizia che li aiuta a sopravvivere.
Ma adesso cambiamo scenario. Attraverso una enorme finestra in vetro, entriamo in un’altra casa, quella della ricchissima famiglia Park, una lussuosissima villa in un quartiere residenziale della città. Anche qui la famiglia è composta da quattro individui: Park Dong-ik, il ricco capofamiglia che dirige una grande azienda informatica, l’ingenua ed annoiata moglie Choi Yeon-kyo, la timida, ma non troppo, figlia adolescente Park Da-hye ed il piccolo e problematico figlio Park Da-song.
La separazione, anzi la frattura, esistente fra le due famiglie è marcata da tutti gli elementi presenti, perfino l’architettura crea divisone di classe: la casa dei poveri Kim è sotto il livello del suolo, quella dei Park è sopra una collina; gli spazi della casa dei Kim sono angusti e luridi, quelli della casa Park ampi, luminosi, lussuosi, sembrano usciti da una rivista di arredamento. I Kim vivono a ridosso di un malfamato marciapiede e sono avvolti dal cemento, i Park conducono un’esistenza dorata, protetti da un grande muro di cinta e immersi in un grandioso giardino. Perfino il cibo è differente, notiamo anche in questo una marcata differenza di classe. Insomma, i Kim ed I Park sono letteralmente e fisicamente agli antipodi, tutto potremmo pensare tranne che queste famiglie possano avere qualcosa in comune (tranne il fatto di vivere nella stessa città), o possano mai venire in qualche maniera in contatto.
Eppure il contatto ci sarà ed è da questo scontro di civiltà che prende avvio il plot del film “Parasite” di Bong Joon-ho, già vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2019 e trionfatore, un po’ a sorpresa, all’ultima Notte degli Oscar del 2020 dove, a fronte di 6 candidature, il film si è aggiudicato 4 premi fra i più prestigiosi: Miglior Film, Miglior Film Internazionale (l’ex premio Miglior Film Straniero), Miglior Regista e Migliore Sceneggiatura Originale.
L’incontro fra queste due famiglie avviene per mezzo di una strana raccomandazione grazie alla quale Kim Ki-woo entrerà nella casa dei Park per insegnare inglese alla ricca figlia adolescente, Da-hye, assunto dall’apprensiva madre Choi Yeon-kyo, che si farà abbindolare da un titolo di studio fasullo e da millantate credenziali. Fin da subito Kim Ki-woo intuisce l’estrema malleabilità della signora Choi Yeon-kyo e già dal loro primo incontro la convince ad assumere la sorella Kim Ki-jeong come insegnate d’arte del figlio Park Da-song, ritenuto dalla madre depositario di un talento artistico grezzo e da affinare.
Piano, piano i due fratelli Kim riusciranno con sotterfugi, intrighi e complotti a far licenziare l’autista e la governante dei signori Park per far assumere negli stessi ruoli i propri genitori. Insomma, l’osmosi fra queste due famiglie tanto diverse pare completa ed alla fine tutti sembrano contenti, se non fosse che il destino un giorno bussa alla porta, o meglio al videocitofono della residenza dei Park. Infatti una sera nella quale, partiti i Park per un campeggio, i Kim si sono riuniti a fare baldoria nella villa dei propri datori di lavoro, ricevono la visita inaspettata della vecchia governante, la signora Moon-gwang che chiede di poter recuperare una cosa importante dallo scantinato della villa.
Fermiamoci qui con il racconto della trama per non togliervi il gusto di recuperare questo straordinario film, che è tornato in molte sale italiane dal 6 febbraio scorso prima dell’assegnazione degli Oscar ed è, dopo il trionfo, ancora in programmazione su molti schermi, e proviamo a capire come mai questo film outsider abbia sbaragliato una concorrenza così agguerrita come quella di quest’anno dei Premi Oscar.
Sicuramente l’Academy Award ha voluto lanciare un messaggio alla politica del presidente Trump, ma questo non basta a spiegare come film eccezionali come “1917”, “The Irishman” e “C’era una volta… a Hollywood”, con 10 candidature ciascuno, e un film notevole come “Joker”, con addirittura 11 nomination, siano rimasti pressoché a bocca asciutta di Oscar “pesanti” in favore di questo film sudcoreano.
Credo che il successo stia nella forza della storia raccontata che è un ibrido fra thriller, commedia, drammatico, con una spolverata di horror, ma non un horror qualunque, bensì un orrore quotidiano, persistente, pestilenziale, un orrore che sentiamo latente in ognuna delle scene del film, un orrore esaltato dalla splendida ed estremamente fluida fotografia di Hong Kyung-po, che ci mostra una realtà alla quale sembra sempre mancare qualcosa o che nel migliore dei casi sia carica di nefasti presagi. Il film Parasite ci mostra uno scontro di civiltà nel quale i ricchi non sono malvagi profittatori, ma ingenui e sempliciotti, gente buona tutto sommato, mentre i poveri non sono virtuosi e stoici, ma meschini e profittatori, un po’ cinici e pronti a tutto pur di manipolare il prossimo.
Insomma, Parasite ci mostra cosa sia diventata la società civile di oggi: da una parte abbiamo i benestanti, radical chic, buonisti ed abbastanza ingenui e dall’altra una classe media impoverita dalla globalizzazione che è diventata perfida e pronta a tutto pur di migliorare la propria condizione sociale. I Park, a loro modo, sono i parassiti della società intera nella quale, come sappiamo, pochi individui detengono la ricchezza dei due terzi della popolazione più povera e ci mostrano quanto sarebbe necessaria una redistribuzione del reddito alle classi più bisognose. Dall’altra parte abbiamo i Kim che diventano veri e propri parassiti della ricca famiglia con cui vengono in contatto, e, al pari di un morbo o di un virus, diventano infestanti e tossici fino alla morte dell’organismo ospite che li ha accolti.
Il regista Bong Joon-ho ci mostra in maniera potente, scintillante e senza filtri a cosa la nostra società intrisa di disuguaglianze sociali, economiche e culturali può portare, anzi ci ha già portato. La stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di questo film si muovono senza ideali, senza piani, senza moralità, non sono più neanche individui nei quali riconoscerci o specchiarci, sono diventati una moltitudine, una folla indistinta, una massa a cui tutto è concesso e nella quale non vi sono colpe, né punizioni, neanche per i crimini più efferati. Una massa informe nella quale non vogliamo riconoscerci, ma della quale siamo già adepti, seguaci e credenti.
Insomma, Parasite ci mostra non tanto la banalità del male, quanto la sua ineluttabilità, sembra che il regista Bong Joon-ho, abbia fatto sua la riflessione del sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman quando, parlando del sentimento della paura ai tempi della globalizzazione, scrisse:
“La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci rendiamo conto che il male si può nascondere ovunque; che esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non ha segni particolari né usa carta d’identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile.”
Quello che ci mostra Parasite allora è la globalizzazione al suo zenit, quando l’unica legge che ha valore è la legge della giungla, nella quale, se non si è un predatore, non si ha grande scelta, si può essere preda o appunto diventare un parassita.
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