Questo è un editoriale difficile da scrivere quest’anno.
Chi mi conosce, anche sui social, ma soprattutto di persona, sa che sono un inguaribile ottimista, eppure il 2023 che è appena passato, anche se da una parte mi ha regalato tante soddisfazioni in campo professionale, dall’altra mi ha inflitto anche delle delusioni profonde.
Come sapete, oltre ad essere direttore responsabile di questo magazine, a cui dedico molto del mio tempo lavorativo e libero, sono un operatore culturale che lavora nell’organizzazione di eventi da almeno 26 anni, ed è proprio da quest’ambito, con le associazioni con cui collaboro da più tempo, che sono arrivate le delusioni più cocenti.
Senza scendere in particolari, mi sta capitando negli ultimi 3 anni e soprattutto nel corso del 2023 di ricevere più soddisfazioni morali, economiche e professionali da aziende e associazioni estranee che da quella che consideravo la mia famiglia.
Il problema, lo sto capendo solo negli ultimi mesi, è proprio nell’uso ed abuso che faccio, e facciamo, di questa parola, “famiglia”, a cui, molto probabilmente, non riusciamo a dare la giusta dimensione e collocazione.
Come ha scritto molto saggiamente la sociologa Francesca Coin nel libro “Le grandi dimissioni – Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”:
“Un dipendente fidanzato con l’azienda è disponibile quando si tratta di fare qualcosa in più. In quest’ottica, l’azienda dovrebbe essere come una grande famiglia. Quando un familiare ha bisogno di auto, ci si attiva subito e ci si dà da fare per risolvere il problema, anche se l’aiuto non viene richiesto in maniera esplicita né remunerato. I dipendenti dovrebbero fare lo stesso: essere devoti all’azienda e adoperarsi per lei persino quando non viene loro richiesto apertamente. […] In generale, il problema della descrizione di un luogo di lavoro come una famiglia, un matrimonio, un hobby o una passione è che questa lettura tende a falcidiare tutte le regole che normano il rapporto lavorativo”.
Devo molto alla lettura di questo testo di Francesca Coin fatta ad inizio anno, perché ha dato un nome ed una dimensione razionale ad una sensazione ed a delle emozioni che mi stanno accompagnando da almeno 3 anni, cioè da quando l’epidemia di COVID19, come successo a tantissimi di noi, mi ha costretto a casa con l’impossibilità di lavorare, la necessità di reinventarmi ed a fare i conti con me stesso e le mie priorità.
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Il futuro tecnicamente non esiste. Lo possiamo immaginare, disegnare, raccontare e poco altro. Anzi no, possiamo anche viverlo proiettandoci in un tempo lontano da noi con il rischio, però, di perdersi tra i vari farò e dirò. L’unica cosa che si può fare è stare nel presente per costruirselo, il Futuro.
Leggere questo libro, soprattutto dopo le delusioni dell’ultimo anno, mi ha fatto capire che non sono il solo in questa condizione, nella quale chi dovrebbe valorizzarmi il più delle volte mi ignora, molte volte mi umilia e, quando va bene, mi dà per scontato.
La mia presa di coscienza non è avvenuta solo grazie alla pandemia e al libro della Coin, ma anche e soprattutto dal confronto. Le esperienze professionali che ho avuto al di fuori della “famiglia” sono state non solo quelle più ricche e soddisfacenti, sia economicamente che moralmente, ma mi hanno fatto capire che alla fine non sono io a non funzionare, ma che è questo “clima familiare” che è sbagliato e totalmente sbilanciato in favore all’organizzazione con cui collaboro da oltre 15 anni.
Cosa fare allora, resistere o mollare?
Non so bene cosa rispondere, e mi scuso con il lettore che, giunto fino a questo punto, già deluso perché si aspettava il mio solito articolo all’insegna della positività, non avrà nessuna risposta o alcun happy end.
I divorzi, in famiglia come in ambito lavorativo, sono decisioni che vanno ponderate con calma e razionalità; per quanto mi riguarda sono, diciamo, vincolato a restare almeno per altro anno e mezzo per portare a casa il risultato di un progetto che ho scritto e contribuito a far finanziare, e i cui frutti non voglio regalare a nessuno; ma, come ho fatto nel corso del 2023, mi sto già guardando in giro e sto collaborando con nuove realtà lavorative, e soprattutto ho capito, o forse ho deciso, che il matrimonio con la mia attuale famiglia lavorativa è qualcosa che non è possibile salvare e che la separazione è inevitabile.
Quindi, per concludere questo mio editoriale con una nota di ottimismo, mai come in questo 2024 il futuro mi sembra aperto e pieno di possibilità, perché la vita può cominciare anche a 50 anni suonati, perché, come disse prosaicamente Winston Churchill:
“Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza mai perdere l’entusiasmo”.