Ormai lo sappiamo: il salto in avanti che abbiamo fatto negli ultimi mesi, in termini di remote working, smart working o lavoro da casa (per i polemici e i puristi della lingua italiana) è pari a un salto avanti di anni. Almeno così dicono, o così ci piace pensare, perchè di fatto, a mio parere, abbiamo assistito all’improvviso fenomeno di un’Italia buttata nel mondo digitale allo sbaraglio, alla scoperta quotidiana di tool più o meno adeguati per continuare a lavorare e alla ricerca delle modalità migliori per utilizzarli. A un’Italia, soprattutto in determinate zone, totalmente impreparata e che mai avrebbe ceduto allo smart working libero che, però, per forza di cose, si è trovata costretta a testarlo, in modalità estrema, e a tratti disorganizzata.
La pubblica amministrazione, le scuole, le aziende, le PMI, persino il mondo dello spettacolo si sono ritrovati “Smart” (che poi letteralmente significa intelligente, traete voi le conclusioni in merito al cambiamento). Comunque sia, ce la siamo cavata. Se ce lo avesse predetto un oracolo, o i Maya, Marty McFly o chissà quale profeta…non ci avremmo creduto.
Lavorare da casa. Tutti. In Italia.
Secondo l’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano i lavoratori da remoto sono passati da 570 mila a 8 milioni. Non tutti contenti, a dire il vero, perchè ci sono settori e ambiti in cui lo smart working è più complicato o persone che non amano abbandonare la routine e il luogo di lavoro con i risvolti di socialità e coesione che ne derivano.
L’italia si è un po’ divisa in due: i sostenitori dello smart working, che una volta abituati a questa nuova modalità non vorrebbero più tornare indietro o sperano di poter avere questa opzione più spesso possibile, e quelli che attendono con ansia il ritorno alla vecchia normalità, alla pausa pranzo con i colleghi, alle riunioni tutti in una stanza, alle strette di mano…
Se ne discute da mesi sottolineando pregi e difetti: il risparmio di tempo per raggiungere la sede di lavoro; la diminuzione dello smog; i minori costi aziendali; il maggior engagement di dipendenti liberi di organizzarsi per bene e con meno distrazioni; ma anche la perdita del contatto umano; le difficoltà nel suddividere il tempo lavorativo da quello personale e così via.
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La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.
Non c’è una risposta giusta. Meglio lo smart working o il vecchio e tradizionale modo di lavorare? Anche in questo caso la risposta è soggettiva. E’ come chiedere se è meglio il mare o la montagna: ognuno ha i suoi gusti e le sue esigenze e sarà in grado di supportare la sua teoria con molte motivazioni valide. Ma nessuno potrà mai convincermi a trascorrere l’intero mese di Agosto in montagna.
Lo smart working non fa per tutti, è vero, ma a questo punto dovrebbe essere un’opzione reale, non qualcosa a cui siamo costretti nei soli momenti di necessità o in soli casi di pandemie mondiali.
Lo smart working è ormai una realtà, che ha persino creato delle interessanti sotto-realtà come il southworking, di cui si parla tanto recentemente, e che altro non è che la possibilità di lavorare al sud per realtà del nord. Io lo pratico da oltre 6 anni e non avevo mai pensato di dargli un nome. Però adesso è molto più semplice da spiegare. Perchè questi mesi ci hanno fatto fare un salto in avanti anche di mentalità, di apertura mentale.
Per anni ho spiegato che sì… vivo all’estremo sud Italia (persino all’estremo sud Europa) e lavoro proprio come se fossi all’estremo nord Italia, senza il minimo problema e con poche differenze organizzative rispetto ai colleghi localizzati a Milano, Bologna ecc…
Nel 2020, per la prima volta, vedo scomparire le espressioni perplesse e le domande del tipo “ma ti pagano?”. In quello che chiamiamo il new normal lo smart working è a pieno titolo lavoro. Lo abbiamo dovuto provare sulla nostra pelle, ma adesso lo sappiamo!
Quale sarà il prossimo step?
Il southworking è sicuramente una bellissima esperienza per chi al momento sta sperimentando la possibilità di trasferirsi (per lo più tornare) al sud; ma parliamo di persone che fino a qualche tempo fa vivevano al nord, probabilmente sono residenti a Milano, Torino, Bologna,…, persone che si sono spostate al nord, hanno trovato un lavoro nelle grandi città e hanno lavorato a lungo in sede e poi, complice la pandemia globale, si ritrovano a poter scegliere dove lavorare. E vanno al sud, che hanno lasciato probabilmente alla ricerca di maggiori opportunità. E ora che le opportunità possono essere smart?
Nel new normal potrò permettermi di studiare al sud, formarmi al sud e inviare il cv per una posizione aperta in un’azienda di Milano/Londra/Torino/Parma anche se vivo al sud, in provincia, e magari non ho tra i miei obiettivi quello di trasferirmi o non ne ho la possibilità?
Il numero degli annunci di lavoro per posizioni in smart working negli ultimi mesi è aumentato, sia da parte delle aziende che dai candidati.
Le aziende si rendono conto di non aver necessità di porre limiti territoriali alla ricerca di competenze e profili validi, e anche chi cerca lavoro vede adesso aprirsi questa prospettiva.
Forse non ci stiamo rendendo conto di quanto questo fenomeno possa cambiare le carte in tavola nel nostro paese, svoltare la vita di tante persone valide che magari difficilmente potrebbero avere grandi occasioni. Non dobbiamo pensare al southworking solo come alla possibilità di ritrasferirsi,ma come l’estensione delle opportunità anche nelle regioni meno sviluppate economicamente.
Nulla di nuovo all’orizzonte: i cosiddetti nomadi digitali lavorano online dove vogliono, per lo più in luoghi dove il costo della vita è abbordabile, e per aziende e realtà all’avanguardia. E dico all’avanguardia nel senso di aziende aperte tanto da considerare il lavoro a distanza una normalità. Adesso, nel 2020, vedo uno spiraglio di avanguardia anche da noi, in Italia, e se riusciremo a sfruttarlo bene non parleremo di southworking, northworking, smart working, remote working, ma semplicemente working, perchè per attivare le nostre capacità intellettuali non tutti abbiamo bisogno di badge, mense aziendali, città munite di metro e pause caffè davanti alla macchinetta automatica.
Cosa ci aspetta?
Il futuro, a mio avviso, è solo trovare la nostra dimensione: sorgeranno sempre più Remote Company, ovvero aziende in cui si lavora al 100% da remoto, con sporadici incontri in punti strategici comodi a tutti; e continueranno ad esserci le realtà tradizionali, con i dipendenti ognuno alla propria scrivania. A questi si aggiungeranno delle aziende un po’ più smart, con formule miste: alcuni collaboratori in smart working e altri ruoli in sede, o con la possibilità di scegliere liberamente o richiedere giornate o periodi in smart working a piacimento, quelle che vengono definite aziende remote friendly.
Il mio è un augurio più che una previsione, ma spero che il futuro del lavoro sia libero, flessibile e senza barriere territoriali. E spero che il 2020 venga ricordato per essere stato il punto di partenza di questa trasformazione e non “l’anno del lockdown”.
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