La notizia del Coronavirus, di cui in tutto il mondo si parla, non può non rappresentare un momento di riflessione attenta da parte dei professionisti del settore e non. No, non parliamo dell’aspetto medico, (lasciamo l’onere alla medicina, che certamente avrà maggiori competenze di chi sta scrivendo), ma di qualcosa che, pur essendo sicuramente più frivolo risulta comunque degno di nota.
Ciò che fa riflettere, partendo da questa drammatica situazione sanitaria, è l’epidemia mediatica che, come spesso accade in situazioni simili, è collaterale a quella reale. Uno studio della East Anglia University in Inghilterra, ha analizzato il ruolo che svolgono i social network nel caso di situazioni simili a quella che stiamo vivendo attualmente con l’allarme Coronavirus: generalmente la disinformazione circola su Internet fornendo informazioni errate sull’origine e le modalità di propagazione del virus, e ciò può avere conseguenze dannose (non ultimo il movimento anti-vax, in seguito al quale sono aumentati i contagi di morbillo). “Le fake news non hanno accuratezza e si basano spesso su teorie di cospirazioni e complotti”, sostengono i ricercatori inglesi Paul Hunter e Julii Brainard, sulla rivista Revue d’epidemiologie et de santé pubblique.
Ciò che vale la pena sottolineare è il fatto che, in queste situazioni, con l’avvento dei social network, il ruolo dei media tradizionali viene sconvolto, e con esso, le teorie classiche sugli effetti dei media trovano nuovo campo di applicazione.
Gli utenti, non più fruitori passivi, ma essi stessi produttori dell’informazione, che non proviene quindi solo dalle istituzioni, fonti classiche delle notizie fino all’avvento del digitale, realizzano una comunicazione many-to-many soppiantando quella one-to-many (tipica della televisione tradizionale), dando vita ad una circolazione bidirezionale del flusso comunicativo.
In questo nuovo panorama qual è la funzione delle tradizionali teorie degli effetti dei media? Sono applicabili ai social network?
Pensiamo agli studi degli anni ’70, che hanno individuato una serie di teorie tendenti all’omogeneizzazione dell’opinione: parliamo dell’Agenda Setting di McCombs e Shaw, 1972, che ritiene che i media, oltre a fornire le notizie, ci presentano anche le categorie mentali grazie alle quali i destinatari possono collocare le notizie nella vita, andando a realizzare una rappresentazione della realtà; e ancora il Modello della spirale del silenzio, di Noell-Neumann, 1974, che sottolinea il ruolo della televisione nell’esercitare una pressione sociale maggioritaria, per la quale l’utente è portato ad allinearsi alla posizione dominante per evitare la marginalizzazione; la Teoria della coltivazione, di Gerbner, 1979, ritiene che la tv coltivi le mappe della realtà, generando omogeneità nell’audience.
A queste si aggiunge la Prospettiva della differenziazione culturale, che, al contrario delle precedenti teorie, ritiene che si possano individuare dei fruitori specifici di generi tematici. Nel panorama digitale quest’ultima prospettiva ci permette di confrontarci esclusivamente con chi si trova nel nostro settore di riferimento, rischiando di avere delle conoscenze “chiuse”, che non si aprono al confronto che permette di approcciare in modo razionale la verità. Troppo spesso troviamo gruppi online dove, gli appassionati/sostenitori si ritrovano uniti da un obiettivo/interesse comune ma che rischia di isolarli dagli altri punti di vista che non accettano, fomentando la crescita di fake news.
Le teorie tradizionali sembrano essere ancora contemporanee se applicate, non tanto ai media tradizionali, quanto ai social media, con un preoccupante effetto: Internet sostituisce la tv, ma con una grande differenza, gli utenti, diventati ormai produttori di notizie, spesso commentano pur non avendo conoscenze concrete sugli argomenti, indirizzando verso false credenze. Assumono il ruolo che precedentemente era della tv, formano un’opinione pubblica di cui poi, molto spesso, si lamentano.
Le epidemie digitali, che accompagnano purtroppo quelle reali, sono spesso create dai cittadini stessi che poi ne rimangono impauriti, con i social la “chiacchiera da bar” diventa virale e viaggia online con un potenziale di contagio esponenziale, che in alcuni casi comporta un’attività aggiuntiva da parte delle istituzioni pubbliche che, oltre ad essere impegnate a spegnere le reali epidemie, si trovano a gestire anche quelle mediatiche.
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