Quando in una città, problematica sotto tanti punti di vista, un teatro registra sold out per uno spettacolo musicale, le risposte sono due: o si sente l’urgenza di riappropriarsi della cultura e degli spazi cittadini, oppure, ci troviamo di fronte ad un grande musicista, che con la sua arte, riesce a toccare l’anima di molti o, forse, entrambe le cose.
È il 21 febbraio 2020, la città in questione è Taranto, il Teatro Orfeo è gremito di gente, neanche un posto libero, impossibile entrare senza biglietto, il concerto di Vinicio Capossela accompagnato dall’Orchestra della Magna Grecia, è sold out da settimane. Del famoso e letale Coronavirus neanche l’ombra, arriverà solo qualche giorno più tardi in Puglia, proprio in provincia di Taranto, lasciando deserti molti luoghi di ritrovo.
“In tempo di pestilenza bisogna parlare d’amore”, esordisce così Vinicio Capossela, solcando il proscenio ed aggiunge che la sua opera, “Bestiario d’amore”, si rifà ai bestiari medievali e come se fossimo in una fiaba boccaccesca, ci saremmo isolati per scampare alla peste dei nostri giorni.
I bestiari, raccolta di testi che descrivono gli animali, reali o inventati che siano, sono comuni nel Medioevo ed hanno una forte valenza simbolica, utilizzati spesso per decantare vizi o virtù umane, molte volte sono accompagnati da illustrazioni, così come l’ultima opera di Capossela, uscita negli store il 14 febbraio, composta da un EP accompagnato da un bellissimo libretto illustrato.
Il suo “Bestiario d’amore” si ispira all’omonimo componimento del poeta duecentesco Richard de Fournival, in cui gli animali sono utilizzati in maniera allegorica, per indagare tutti gli aspetti umani dell’amore e dell’innamoramento, ne deriva un viaggio introspettivo leggero ed originale, che tiene incollati alle poltrone del teatro tutti gli spettatori, nessuno escluso, per ben due ore, tra bestie comuni, rare o mitologiche, tra maschere e cappelli di scena, tra il desiderio di ascoltare il nuovo e lasciarsi scivolare nei ricordi delle vecchie e rassicuranti canzoni, che magari si conoscono a memoria, ma che adesso assumono un’altra veste, più completa, più intima.
È l’incanto dell’arrangiamento orchestrale, la magia che l’Orchestra della Magna Grecia riesce a ricreare, nei componimenti più romantici, senza perdere colpi in quelli più frenetici e ritmati, è l’impeccabile direzione del Maestro Stefano Nanni, reduce dal successo di Sanremo 2020, nel quale ha diretto le esibizioni di Raphael Gualazzi, è lo speciale legame e rapporto che si crea da subito col il pubblico in sala.
È semplicemente Vinicio, che riesce sempre a strappare un sorriso, a far riflettere, a far guardare le cose in modo diverso, a trasportare il suo pubblico tra le pieghe dei suoi mondi fiabeschi ed insondabili, tra le sue “Canzoni a Manovella”, le sue “Ballate per uomini e bestie, tra “Marinai, profeti e balene”.
È l’amore, in tutte le sue forme, che trasforma tutte le cose, lo stesso amore che “apre i cancelli allo zoo interiore che ci portiamo dentro. Attiva in noi il lupo, il coccodrillo e la sirena, ci rende parenti stretti del licantropo, del corvo e dell’asino selvaggio, ci rende credibili la fenice e l’unicorno. Insomma mette in moto e rivela un intero bestiario d’amore, perché l’innamorato è un mostro, sopraffatto dalla necessità di mostrarsi”, quello stesso amore che Vinicio ci esorta a mostrare, non solo per l’essere, oggetto del desiderio, ma anche per il luogo in cui viviamo, per le radici e la nostra storia.
Lo fa lui per primo, nel modo che non ci si aspetta, dice che è felice di vedere il teatro così pieno, racconta la sua Taranto, dice che le Sirene le ha sentite dopo l’ennesima Birra Raffo, ammiccando al marchio storico e patrimonio, nell’immaginario collettivo, della città, lo fa esortando l’orchestra, bestia anch’essa mitologica, mastodonte della musica, come lui stesso la definisce, a mettere una mano sul cuore quando a suonare il pianoforte è il Maestro Nanni, scherzosamente travestito da Giovanni Paisiello, con tanto di parrucca settecentesca.
Solo un artista con grande estro e grande sensibilità poteva mettere insieme la musica de “Nel cor più non mi sento”, celebre aria di Giovanni Paisiello, con le parole di Alessandro Leogrande sulla salvaguardia della città vecchia, parole con cui Leogrande cita Bassani, che racchiudono a mio avviso, l’essenza di tutta la serata, “la poesia non è il fiore sul vulcano. Brama il contesto, esige le strutture. È il riflesso della vita, la prova della vita. E, proprio come la vita, non è mai pura.”
Così, mentre la musica va ed io ancora mi chiedo come sia avvenuto quell’artificio scenico in grado di avvicinare musica e parole distanti secoli tra loro, per creare un concetto nuovo, capisco il “contesto”, capisco il perché di quella mano sul cuore, quell’orgoglio che manca, per la storia, per le proprie pietre, per la cultura, per le radici, l’amore per una città che fatica a riconoscere le proprie eccellenze e vocazioni.
“Il tempo non è gentile”, ci ricorda Vinicio, “il tempo è passato troppo in fretta”, penso tra me e me, troppe emozioni, troppe scosse al cuore, troppi pensieri per un concerto solo, sembra appena iniziato, eppure è già finito, sembra breve, eppure si esce con l’idea di aver affrontato un percorso, un vero e proprio viaggio, la metamorfosi di chi cambia per amore, o forse veramente, la musica ci ha cambiati.
Mentre mi avvio all’uscita, scenari apocalittici misti a credenze medievali, reminiscenze di racconti e film di fantascienza, miste a fake news e comunicati ufficiali, mi affollano la mente.
Il Coronavirus è alle porte: È forse questo l’ultimo concerto al quale ho assistito?
Smetteremo di frequentare i luoghi pubblici? Ci terremo a distanza di sicurezza?
Smetteremo di abbracciarci? Saremo più simili alle bestie? Dimenticheremo la solidarietà?
Domande che non hanno trovato ancora risposte, o forse, corsi e ricorsi storici, mediati dall’immaginario fiabesco al quale ho assistito.
Da lì a poco, sarà la paura ad arrivare, quella stessa paura che svaligia supermercati o farmacie e scatena l’odio contro chi, suo malgrado, ha solo la colpa di essersi ammalato.
Quando la paura avrà invaso prepotentemente i nostri pensieri più reconditi, allora, l’unico antidoto sarà l’amore, mentre musica, poesia ed arte, i medicamenti che ci guariranno, ricordandoci che siamo ancora umani, ecco perché, “in epoca di pestilenze sentiamo la necessità di cantare l’amor”, diceva il Boccaccio, a metà del 1300 e Vinicio Capossela, ce lo ribadisce oggi, nel 2020.
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