Un corpo smunto, emaciato, filiforme, svicola come un ratto lungo le strade di Gotham City. Siamo agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso in una città sporca e lurida in cui il disagio sociale è non solo tangibile, ma addirittura insopportabile, opprimente, claustrofobico.
Arthur Fleck (uno straordinario Joaquin Phoenix) è un fantasma alla deriva in una città che pare non accorgersi di lui, è depresso, alienato ed affetto da un disturbo neurologico che gli provoca improvvisi ed incontrollabili attacchi di risate, soprattutto in momenti di tensione.
Arthur sogna di diventare un cabarettista come il suo idolo, Murray Franklin (il sempre bravo Robert De Niro), un presentatore televisivo di successo, ma il suo complicato stato emotivo ed esistenziale, insieme alla mancanza di talento, non gli permette di sfondare, nonostante il suo impegno e la partecipazione a spettacoli in diversi comedy club della città.
Arthur vive con l’anziana madre Penny Fleck (l’attrice e doppiatrice Frances Conroy) e sbarca il lunario lavorando come pagliaccio pubblicitario per una piccola agenzia.
Quello cui assistiamo sullo schermo è il romanzo di formazione di un sociopatico, la lenta discesa nei meandri più oscuri dell’animo umano, il declino morale, esistenziale ed emotivo di un uomo il cui destino è ormai segnato fin dalle prime inquadrature.
Tutto il mondo attorno sembra tramare contro Arthur. Nel suo lavoro è spesso vittima di soprusi da parte del capo e di furti e pestaggi da parte di bande di balordi in mezzo alla strada.
Perfino la stessa architettura della città di Gotham (New York), opprimente e squallida, pare preludere al declino del nostro protagonista. Della città vediamo solo i vicoli, i marciapiedi, la metropolitana, i comedy club nei seminterrati o degli interni angusti e claustrofobici, dai colori lividi e male illuminati da luci diafane e tremolanti, spazzatura e degrado dappertutto. La Gotham del film è come Arthur Fleck stanca, alla deriva e pronta ad esplodere.
Come rivela acutamente Paola Casella su CineCriticaWeb, il regista Todd Phillips (Starsky & Hutch, Una notte da leoni, Parto col folle) decide di filmare e rappresentare Gotham/New York sempre sul piano della strada, rinunciando alla verticalità insita nei geni di questa metropoli; mai la cinepresa ci mostra uno scorcio di cielo, quasi mai un grattacielo, e la grande scalinata che compare nel film, quella che Arthur percorre ogni giorno tornando a casa, benché ripresa dal basso non ascende a nulla ma, anzi, sprofonda nei meandri oscuri di una metropoli infima, alienante e putrida.
In ultimo, anche la diseguaglianza sociale mina la salute mentale del nostro protagonista. Siamo negli anni ’80 ed è in quegli anni che si accentua il divario fra ricchi e poveri; nelle inquadrature vediamo una netta divisione fra la Gotham ricca, abitata da yuppies in griffati completi doppiopetto, e un’umanità misera, caotica ed oppressa, vestita di stracci ed abiti dimessi.
Arthur frequenta le sedute da un’assistente sociale, che gli prescrive anche le ricette per i farmaci, la quale durante un incontro gli confessa che, a causa della crisi economica e dei tagli al budget delle spese sanitarie, il centro sarà chiuso e gli incontri di sostegno finiranno.
Come un clown triste uscito dall’opera “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, Arthur si trascina lungo le strade invase dalla spazzatura di una metropoli che semplicemente non pare accorgersi di lui, del suo disagio, del suo malessere, del suo grido d’aiuto.
Le ispirazioni del film di Todd Phillips sono tutte rintracciabili nel cinema della New Hollywood e soprattutto nei film di Martin Scorsese come “Re per una Notte” (al quale il personaggio interpretato da Robert De Niro è un dichiarato omaggio), od ancora come “Serpico” diretto da Sidney Lumet, al quale il film pare debitore delle atmosfere, ma soprattutto a “Taxi driver” (sempre di Martin Scorsese), nel quale sempre lo stesso De Niro dà corpo e sostanza al protagonista Travis Bickle, il disturbato tassista, ex veterano della guerra del Vietnam, che decide di dare senso alla propria squallida esistenza pianificando l’uccisione di un candidato politico e salvando una prostituta dal suo pappone e che tante, troppe similitudini pare avere con il nostro Arthur Fleck/Joker.
Insomma, Arthur Fleck è un predestinato, la vittima sacrificale di una società votata al cinismo, ma è pure un capro espiatorio che è necessario alla stessa società per affrancarsi dalle sue scorie nocive, dai suoi rifiuti putridi, dalla sua mancanza di empatia. Arthur Fleck diventerà il sociopatico Jocker, che affermerà la sua individualità e il suo esistere nel mondo attraverso l’omicidio per redimersi dal suo stato di fantasma, di ultimo, di scarto indesiderato, perché una città votata al collasso ha bisogno di un cattivo, sul quale scaricare sia le proprie pulsioni autodistruttive sia, in ultimo, per potersi affrancare dalle proprie responsabilità.
Arthur Fleck diventa una sorta di giustiziere della notte impazzito, un Robin Hood omicida, un rivoluzionario delirante, e questa diventa la sua vera prova d’attore, la sua cifra stilistica. Attraverso l’omicidio afferma se stesso e la sua individualità e diviene finalmente un uomo di successo, riconosciuto e seguito da centinaia di fan ed epigoni che mettono a ferro e fuoco la città di Gotham.
Noi spettatori assistiamo, ed in un certo senso viviamo, la lenta metamorfosi di Arthur in Joker, una trasformazione che è fisica, morale e psicologica, e non possiamo fare altro che empatizzare con questo antireroe, soffriamo con lui per tutto il film e quando, alla fine, la transizione di Arthur in Joker è completa siamo inorriditi, nauseati e traumatizzati dalla sua violenza e dalla sua mancanza di qualsiasi scrupolo morale. Siamo stati per tutto il film dalla sua parte e ora ci accorgiamo che la sua follia può essere anche la nostra, la sua furia omicida può diventare la nostra, insomma che in ognuno di noi riposa un mostro pronto a svegliarsi.
Il Joker di Todd Phillips permette al cinema di assolvere ad uno dei suoi compiti più specifici e insieme complicati, quello di essere lo specchio dei tempi; noi ci riflettiamo in esso e, come il protagonista della pellicola, ci rendiamo conto che ciò che vediamo è l’immagine di un mostro che diviene giorno per giorno più concreta e definita.
Fra i tanti interventi sul film il grande regista Michael Moore ha saggiamente dichiarato:
“Questo non è un film su Donald Trump. È sull’America che ci ha dato Trump – l’America che non sente il bisogno di aiutare gli emarginati e i poveri. L’America dove i ricchi sfondati lo diventano ancora di più […] il pericolo più grande per la società sarebbe se non vedeste il film. Perché la storia che racconta e i problemi che affronta sono talmente profondi e necessari che se distogliete lo sguardo da questa grande opera d’arte vi perderete il dono dello specchio che ci offre. Sì, c’è un clown turbato in quello specchio, ma non è da solo – noi siamo lì, di fianco a lui”.
Il film ha vinto il Leone d’Oro come miglior film alla 76esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e mentre scrivo questa recensione (23 ottobre 2019) ha incassato 250,0 milioni di dollari negli Stati Uniti e Canada e 491,3 nel resto del mondo, per un totale di 741,3 milioni, diventando uno dei campioni d’incasso della stagione.
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