La Copertina d’Artista – Marzo 2017

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Una pellicola tipografica, di quelle usate nella stampa offset, o meglio, il negativo di una pellicola, fortemente “manipolato” fa da copertina al numero di marzo del nostro magazine.

Pochi e fondamentali i colori, nero, bianco, ciano, magenta e giallo spiccano da quest’immagine che riproduce la prima pagina di un quotidiano americano tragicamente famosa, o meglio sarebbe dire famigerata, accostata ad una figura femminile non ben definita, rappresentata sfocata (pixelata), che in realtà si sovrappone e sembra più un disturbo dell’immagine principale, un sorta di fantasma digitale, o effetto fata morgana.

La data riportata sulla testata e la foto riprodotta non lasciano dubbi, si tratta della prima pagina del New York Times del 12 settembre 2001, all’indomani dell’attacco terroristico alle Twin Towers.la-copertina-dartista-marzo-2017

 La madre di tutti gli attentati terroristici, l’11 settembre 2001, il giorno in cui, con il nuovo secolo appena cominciato, l’Occidente opulento ed imperialista si è risvegliato insicuro, impreparato e debole. Un giorno che è stato chiamato in molti modi e paragonato a molte cose, alcuni storici hanno detto che si trattava di una “invasione barbarica” che avrebbe demolito l’impero centenario degli Stati Uniti, così come i barbari decretarono la caduta di Roma e del suo impero. Molti sociologi, politologi ed economisti hanno affermato che la caduta delle Torri gemelle, rappresentava la caduta dell’egemonia culturale, sociale e politica dell’intero Occidente, contro l’emergere di nuove superpotenze non solo economiche e sociali, ma soprattutto identitarie.

Tutti loro, purtroppo, hanno avuto ragione.

World Trade Center AttackedL’11 settembre 2001 è stato la prima onda di ritorno della globalizzazione, il big crunch dell’occidente, la campana che suonava a morto non solo a New York, negli Stati Uniti o in America, ma che riecheggia ancora nelle orecchie di tutti gli esseri umani.

L’11 settembre 2001 rappresenta il primo mito del nuovo millennio e probabilmente diventerà il primo archetipo di un immaginario collettivo che dimorerà nei sogni, negli incubi e nelle coscienze di tutti noi.

Ma perché l’artista di questo numero, per rappresentare il tema (e la mostra ad esso collegato) “Information” ha voluto realizzare un’opera che riapre una ferita collettiva mai rimarginata, gettando il sale della sua arte su lesioni ancora sanguinanti?

Prima di rispondere a questa domanda e prima di conoscere l’artista, forse dovremmo conoscere meglio la mostra che fa da titolo al nostro magazine.

Una veduta della mostra Information tenutasi al MoMa di New York nel 1970.
Una veduta della mostra Information tenutasi al MoMa di New York nel 1970.

Information che si tenne al MoMA di New York nel 1970, curata da Kynaston McShine, fu la prima grande vetrina per l’Arte Concettuale tenutasi negli Stati Uniti. Furono oltre centocinquanta gli artisti invitati ad esporre, fra cui quasi tutti gli esponenti fondamentali dell’arte concettuale, alcuni rappresentanti dell’arte povera italiana e alcuni esponenti della land art.

La mostra prediligeva forme artistiche allora tenute al margine delle grandi esposizioni, la maggioranza delle opere erano, infatti, testi, fotocopie, fotografie e video. Persino il catalogo della mostra era un progetto fortemente innovativo, raccoglieva infatti i contributi degli artisti invitati, sotto forma di progetti e dattiloscritti, che qualche volta coincidevano con l’opera in mostra, altre volte no.

Il tema alla base dell’esposizione era il cambiamento innescato dalla velocità e dalla trasmissibilità dell’Informazione nella società dell’epoca, che viveva al contempo con profonde rivoluzioni sociali (il ’68 ed il movimento hippie), culturali (la stampa e la radio venivano soppiantate dalla televisione) e politiche (la guerra del Vietnam e la corsa agli armamenti atomici della Guerra Fredda). Insomma il decennio lungo del secolo breve si apriva con una mostra che si interrogava sulla modernità e pervasività delle nuove tecnologie, sulla globalizzazione dell’informazione e sui possibili cortocircuiti che tutto questo avrebbe innescato nelle riflessioni e nella ricerca degli artisti.

Il catalogo della mostra Information.
Il catalogo della mostra Information.

La mostra ed il catalogo, che furono uno shock non solo per la stampa e gli addetti ai lavori, ma perfino per il MoMA stesso, è passata, come si è detto, alla storia come l’evento cardine dell’arte concettuale.

L’opera che fa da copertina al nostro giornale si chiama “102 minutes”, quindi, crea un collegamento fra una mostra degli anni ’70, appunto Information, ed un fatto di cronaca degli anni 2000, appunto l’attentato terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

L'artista Gemma Carta
L’artista Gemma Carta

Inquadrata la mostra a cui il nostro magazine fa riferimento, non resta che inquadrare l’artista, ma quest’operazione risulta molto difficile: Gemma Carta è un alter ego, uno pseudonimo, o meglio, una vera e propria fata morgana dell’arte contemporanea. Della sua vera identità si sa ben poco, poche notizie, un sito, una pagina Facebook e nulla più, ma come dovrebbe sempre essere, è l’arte a parlare del e per l’artista e in questo caso sono i suoi IMA, ossia Interventi Mediatici Attivi, vere e proprie incursioni nella memoria collettiva, nei fatti della storia, nel flusso interrotto e stordente dei media.

I suoi interventi, le sue incursioni, assomigliano alle azioni di guerriglia, piccoli, agili, veloci, ma dirompenti negli effetti, letali nelle conseguenze e capaci di destabilizzare lo status quo dell’informazione, della politica e del potere.

Questa guerrigliera dell’arte contemporanea ha all’attivo diversi interventi, tutti legati da una parte al mondo dell’informazione e dall’altro a grandi fatti rimossi della nostra storia e del nostro immaginario collettivo.

L'IMA Willy Pete
L’IMA Willy Pete

Con 17 kg (il quantitativo di tritolo usato) è apparsa sul luogo della strage di piazza Fontana. Ed era il 1969. Poi ha attraversato il disastro del Vajont con l’opera TOC (il monte franato) e si è presentata a testimoniare la più grave strage terroristica del dopoguerra in Europa: con Willy Pete (la bomba al fosforo) ha ricordato le 32 vittime di Fiumicino nel 1973 e di come questa strage sia stata rimossa dalla memoria collettiva.

La cosa più intrigante dei suoi IMA è che Gemma Carta, per denunciare la mancanza di informazione, la censura, l’oblio mediatico, utilizza proprio gli strumenti e le tecniche dell’informazione stessa, rielaborandone codici, colori, processi e materiali.

Le sue informazioni alterate, rielaborate, manipolate, in un certo senso falsate, contengono e dicono molta più verità di tutte quelle notizie ritenute attendibili.

Come già ci ricordava Pablo Picasso:

“L’arte è una menzogna che ci avvicina alla verità”.

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