Hater, troll, cyberbullismo sono il lato oscuro del web, il lato oscuro di chi si nasconde dietro una tastiera per insultare, incitare all’odio, innescare meccanismi di conflitto in rete; certe volte l’odio è completamente gratuito, avviene senza che ci sia un motivo scatenante, altre volte il motivo è futile o non tocca direttamente l’odiatore di turno; in alcuni casi sono presi di mira i personaggi famosi; in altri, semplici persone comuni, conosciute o sconosciute all’odiatore.
Il tipico scenario d’azione degli odiatori seriali sono i social network, piazza virtuale dove incontrarsi e scambiare opinioni e dove odiare è quasi una professione ed in cui è estremamente facile che dei commenti negativi si trasformino in shit storm, tempesta di fango, odio, insulti, ingiurie immotivate, in grado di travolgere chi la subisce.
L’Accademia della Crusca definisce “hater” la “persona che usa la rete, e in particolare i social network, per esprimere odio o per incitare all’odio verso qualcuno o qualcosa; odiatore”, ma non racconta che spesso gli hater, definiti anche “leoni da tastiera” per la puntuale veemenza con cui aggrediscono l’interlocutore, sono persone insospettabili, innocue, persone che nella vita reale si guarderebbero bene dall’adottare comportamenti socialmente aggressivi.
Allora, come mai tutto questo odio in rete? Che cosa lo scatena e come si diffonde?
L’anonimato è sicuramente un elemento che favorisce l’odio in rete; il nascondersi dietro un nickname, convinti di non essere identificati o identificabili, sicuramente mette al sicuro e al riparo gli haters, che non dovranno arrivare mai ad uno scontro diretto con l’oggetto delle loro vessazioni e si sentiranno liberi di dire tutto quello che gli passa per la testa senza pensare che dall’altra parte dello schermo ci sia una persona con delle emozioni e dei sentimenti.
A braccetto con l’anonimato c’è la convinzione che, laddove ci fossero i presupposti di reato (e ricordiamo che questi reati valgono anche sul web), non si verrà mai scoperti perché è impossibile identificarli e rintracciarli; in realtà, sappiamo bene che ci sono metodi più o meno sofisticati per arrivare a chi scrive sul web e rintracciare materialmente gli haters (ma questa è un’altra storia).
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E’ davvero troppo facile trovare nei commenti un certo grado di violenza, opinioni sprezzanti e sentenze passate in giudicato dal tribunale dei social. Tutto può essere scritto, sembra non ci siano limiti.
Ma di chi è la responsabilità?
Che questi individui non godano di un perfetto equilibrio psichico lo capiamo anche senza aver fatto particolari studi, ma sono particolarmente interessanti alcuni studi pubblicati dalla rivista Frontiers che hanno analizzato il comportamento degli haters per capire se si tratta di persone psicopatiche, giungendo alla conclusione che vi è una forte tendenza a comportamenti psicopatici; non solo, uno studio ha evidenziato anche una forte correlazione tra il comportamento di odio online e frustrazione, narcisismo e comportamenti machiavellici.
Altri studi dell’importante rivista si sono poi concentrati sulla possibilità di stilare una sorta di identikit dell’hater, prendendo in esame comportamenti di odio e incitamento all’odio su Facebook in 4 lingue diverse e utilizzando un campione abbastanza ampio.
L’esame ha evidenziato che gli uomini producono più commenti odiosi rispetto alle donne e le persone producono più discorsi di odio man mano che invecchiano; non solo, i comportamenti di odio in rete erano più frequenti laddove ci si trovasse in una condizione socio-culturale bassa, che evidentemente scatenava un certo grado di frustrazione verso chi si riteneva fosse più fortunato e quindi oggetto di vessazione.
Un altro studio pubblicato sulla rivista Nature e condotto sui commenti generati sulla piattaforma Youtube, analizzando le dinamiche comportamentali e la relazione degli utenti con la disinformazione, ha invece evidenziato che non esistono odiatori puri, cioè persone che scrivono solo commenti di odio, e quindi il fenomeno non è relegato a una determinata categoria di utenti.
È interessante notare che pare che l’utilizzo di un linguaggio offensivo e violento da parte di utenti sia scatenato occasionalmente da fattori esterni e che ad essere più tossici e cruenti nei commenti siano quegli utenti che si informano principalmente da fonti affidabili; quindi, pare che il fenomeno degli haters non sia amplificato dalle fake news e dalla disinformazione.
Lo studio ha preso in esame circa un milione di commenti su Youtube evidenziando anche che solo il 32% dei commenti classificati come violenti sono stati rimossi dalla piattaforma o dall’autore a un anno dalla pubblicazione, questo significa che probabilmente bisognerebbe porre più attenzione nei confronti dei comportamenti di odio, reprimendoli sul nascere anche con meccanismi automatici che blocchino determinate espressioni o parole ritenute offensive e che quindi servirebbero maggiori restrizioni per arginare il fenomeno.
Ma quando la libertà di pensiero diventa odio immotivato? E ancora, dove sta il confine tra libertà di espressione e incitamento all’odio?
Il confine è labile e nel mezzo ci sono fattori etici, politici, culturali difficili da individuare solo servendosi di meccanismi automatici guidati da Intelligenze artificiali
Secondo una ricerca di SWG, azienda specializzata in ricerche di mercato, la percezione che l’odio in rete sia molto diffuso è alta, l’86% degli intervistati è convinta di questo, mentre il 30% dichiara di conoscere persone che diffondono odio in rete, e che quindi fanno parte della loro cerchia dei contatti social; tra gli argomenti che innescano più odio, invece, troviamo migranti, politici, gay, donne, mentre, contrariamente a quello che comunemente ci viene da pensare, i personaggi pubblici e famosi sono solo alla fine della lista.
Significativo è il fatto che la maggioranza degli intervistati abbia la percezione che il fenomeno dell’odio in rete sia molto diffuso, ci serve da misura per comprendere quanto effettivamente lo sia, tanto da non poter essere ignorato o marginalizzato, ancor più se gli intervistati dichiarano di provare sensazioni di fastidio (il 51%), rabbia (il 36%), tristezza (il 32%), delusione (il 25%) e imbarazzo (l’11%), evidenziando una situazione di malessere generalizzato.
Difficile bloccare un fenomeno così complesso evitando che dilaghi e senza intaccare libertà personali (ad esempio, chi decide che cosa è offensivo e cosa no? In base a quale criterio?), rischiando il ritorno di una sorta di censura in un ambiente, il web, in cui la libertà di espressione è tutto; l’unico consiglio che ci sentiamo di impartire è di segnalare sempre gli utenti che pongano in essere comportamenti aggressivi, bloccandoli, se è necessario, in modo da isolarli, e, se si viene attaccati direttamente, denunciare subito alla polizia postale, in modo che chi si comporta scorrettamente venga individuato nel minor tempo possibile.