Raffaello Castellano (533)
Comincia con un colpo di cannone e le atmosfere liriche di una Roma eterna, monumentale, ripresa a mezzogiorno sul colle del Gianicolo, dove una varia umanità composta da turisti asiatici, vecchi seduti alle panchine, persone intente a leggere, e che sembrano più immobili dei monumenti e delle splendide architetture riprese dall’occhio della cinepresa. Ad accompagnare il tutto la splendida musica “I Lie” di David Lang (un compositore che ha vinto il Premio Pulitzer), con il testo in yiddish di Joseph Rolnick, eseguita dal coro dei Torino Vocalensemble come se fosse un canto gregoriano. Il titolo del pezzo non è casuale, significa mentire, dire bugie, ma, come spesso accade con l’inglese, ha pure un altro significato, significa stare disteso, giacere. Ed il film di cui parliamo è stato accusato proprio di adagiarsi, giacere, ritorcersi su se stesso senza una vera sceneggiatura, un’unità narrativa, ma questo aspetto lo analizzeremo dopo. Andiamo avanti con il racconto: una rottura di schemi improvvisa ed un cambio di scena repentino ci catapultano in un’ambientazione totalmente diversa, siamo sul terrazzo di una lussuosa casa romana, ad una festa mondana ed abbastanza volgare.
Qui riprese in steady cam e dolly ci presentano piano piano tutti i protagonisti di questo film: Lello Cava, facoltoso venditore all’ingrosso di giocattoli dalla parlantina sciolta e marito infedele (interpretato dall’attore Carlo Buccirosso); Romano, sceneggiatore teatrale fallito (interpretato da Carlo Verdone, in una delle sue migliori performance); Stefania, scrittrice modesta ed intellettuale egocentrica (la bravissima attrice Galatea Ranzi); Viola, ricchissima borghese con un figlio affetto da gravi problemi psichici (interpretata magistralmente da Pamela Villoresi); Dadina,editrice ed intellettuale, dalla bassa statura (è infatti una nana) ma dalla grande arguzia (la briosa attrice Giovanna Vignola). Sono tutti lì riuniti, insieme ad un centinaio di invitati, per festeggiare il 65° compleanno di Jep Gambardella ( il protagonista, lo straordinario Toni Servillo), giornalista di costume e critico teatrale navigato, un rappresentante di quei Radical Chic molto frequenti sia fra la borghesia romana che tra la nobiltà decadente.
E si può dire che il film, attraverso il suo protagonista, ci trasporti senza troppa enfasi, annoiati e disincantati anzi, da una festa all’altra, da un terrazzo all’altro, da una cena ad una performance artistica. Jep Gambardella è un mondano vero, anzi, come afferma lui stesso, il re dei mondani, ma non è stato sempre così. In passato è stato un promettente scrittore, la sua prima opera, “L’Apparato Umano”, nonostante le buone critiche e i numerosi riconoscimenti (ha vinto il Premio Bancarella), è stata anche l’unica che abbia mai scritto.
Poi però il suo impegno civile si è stemperato, anzi è stato fagocitato dalla città di Roma, che lo ha trasformato appunto in un intellettuale da cortile.
Ma per quanto il nostro protagonista abbia tradito il suo ideale, noi spettatori non possiamo fare a meno di parteggiare per lui, che nonostante tutto rimane un giornalista irriverente ed intransigente, sia con gli altri che con se stesso, e ce ne da una prova in due scene molto caustiche.
Nella prima è chiamato a scrivere una recensione su una performance di arte contemporanea, dove una sedicente ragazza, dopo essersi fasciata la testa, correndo va a sbatterla su di un pilastro di un antico acquedotto romano, spogliandosi poi nuda e gridando alla fine “io non mi amo”.
Durante l’intervista con l’artista, il nostro Jep insiste e persiste nella richiesta di una qualche spiegazione di quest’opera quanto mai sconcertante, al che l’artista, infastidita dal dover spiegare il suo intervento e senza gli adeguati strumenti culturali, risponde farfugliando parole vuote e sconclusionate. Arriva a dichiarare che le sue performances nascono dalle “vibrazioni” che l’ambiente le trasmette. Ma alla domanda di Jep su cosa sia una vibrazione la ragazza non è in grado di rispondere e si indispone al punto da cacciare il nostro eroe. Al di là della palese critica da parte del regista a buona parte di quella che oggi si spaccia come body art, non possiamo non notare come, alle volte, bastino poche domande ben assestate per capire meglio chi, o che cosa, abbiamo di fronte.
Ancora più emblematica è la scena della conversazione, durante la solita festa, sulla vocazione civile dei giovani di oggi, che vede impegnati tutti gli amici di Jep, ma che presto diventa un feroce dibattito fra quest’ultimo e Stefania. Questa asserisce di essere una donna forte, scrittrice impegnata, moglie amata e madre esemplare, ma dopo una sua tirata moralistica, Jep le risponde smontando ogni sua presunta certezza compilando un elenco al vetriolo (“ad ordine sparso” dice lui), concludendo con una frase che dà il senso, a mio modo di vedere, a tutto il film: “Stefà, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi… Allora invece di farci la morale… di guardarci con antipatia… dovresti guardarci… con affetto… Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro… O no?”.
Molti di voi, dopo questo lungo excursus, avranno ormai capito che parliamo de La Grande Bellezza, il premiatissimo film di Paolo Sorrentino che, oltre all’Oscar per il miglior film straniero del 2014, ha fatto incetta di altri prestigiosissimi premi, tra cui: 1 Golden Globe, 3 Nastri d’Argento, 9 David di Donatello e 1 Premio BAFTA.
Un capolavoro che, al pari de “Il Capitale Umano” di Paolo Virzì e “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia, giusto per citare alcuni dei più recenti, scava nell’anima “grigia” del nostro essere italiani e del nostro Paese.
Ma prima di concludere un’ultima domanda si impone prepotente, soprattutto dopo il vespaio di commenti sul web, sui giornali e al bar che si sono generati dopo la prima visione TV di questo film (il 4 marzo 2014 il film è stato trasmesso in prima serata da Canale 5, totalizzando 8 861 000 telespettatori e raggiungendo il 36,12% di share, diventando quindi il film più visto degli ultimi dieci anni sulla televisione italiana), e la domanda è: Perché mai questo film allo stesso tempo ci appassiona e ci respinge, ci piace e ci urta, ci commuove e ci irrita?
Cercherò di rispondere a questa domanda dando la mia personale versione, tralasciando, per questioni di spazio e per non abusare della pazienza del lettore, tante altre cose che avrei dovuto citare del film, fra attori ed attrici e commenti tecnici.
Credo che il film, ma la stessa cosa si può dire del cinema italiano di qualità prodotto negli ultimi tempi, funzioni come uno specchio riflettente: l’immagine che lo stesso ci rimanda è la vera faccia del sistema Italia, con tutte le sue storture, le sue ipocrisie, le sue meschinità, i suoi drammi.
La Roma e l’Italia intera che si riflettono nel film di Sorrentino sono quelle che oggi tutti noi sperimentiamo, viviamo e in tutti i modi cerchiamo di trasfigurare.
Nel film la bellezza della capitale è sì consolatoria, ma anche il monito di un patrimonio che non riusciamo a valorizzare; gli ambienti immensi e per lo più vacui, le feste cafone e vuote, sono la cartina tornasole della società contemporanea.
Le amicizie, per lo più superficiali ed interessate, sono l’embrione da cui poi nascono corruzione e malaffare.
Gli artisti, gli scrittori, gli intellettuali che incontriamo nel film, tutti autoreferenziali, hanno tradito la loro vocazione civile, il loro impegno, il loro “compito” potremmo dire, barattandolo per 15 minuti di fama, affogandolo in drink alcolici e stordendolo con le droghe più varie.
Questo grandissimo film ci parla di oggi, della nostra realtà liquida, ci parla di noi e di ciò che siamo diventati, ci parla del futuro che come individui, comunità e Paese non riusciamo più a progettare, né, ahimè, ad immaginare; questo film ci mostra, impietoso come uno specchio, tutti i chili che abbiamo messo su durante le festività, tutte le rughe del tempo trascorso, tutti i difetti che abbiamo appreso, anche se cerchiamo di nasconderli sotto un trucco pesante, un completo alla moda o il ritocchino chirurgico.
Per questo il film di Sorrentino ci avvince e ci respinge allo stesso modo, ed anche per questo il film all’apparenza, ma solo all’apparenza, risulta privo di un’unità narrativa, perché pure noi italiani vaghiamo da almeno 30 anni senza una meta. Lo stesso Jep, ubriaco alla solita festa, dice: “So’ belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so’ i più belli di tutta Roma. […] So’ belli. So’ belli perché non vanno da nessuna parte”.
Quindi, per concludere, dobbiamo dire e dirci che questo film è un capolavoro “scomodo”, che come italiani noi dobbiamo assolutamente vedere e rivedere, perché solo prendendo coscienza di quello che siamo diventati, solo allora, potremmo riorganizzarci e riorganizzare il nostro Paese.
E forse, oltre che mezzo conoscitivo del sé, l’Arte, anche quella cinematografica, può divenire strumento con cui “costruire il futuro”, se è vero, come credo che sia, ciò che ha detto il grande Antonin Artaud: “L’arte ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca. L’artista che non ha accolto nel fondo del suo cuore il cuore della propria epoca, l’artista che ignora d’essere un capro espiatorio, e che il suo dovere è di calamitare, di attirare, di far ricadere su di sé le collere erranti dell’epoca per scaricarla del suo malessere psicologico, non è un artista”.
Tutto questo per buona pace dei detrattori del film!
Buon anno nuovo e buone visioni a tutti voi.