Con l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe, decisa da Vladimir Putin, del 24 febbraio scorso la guerra è tornata nel cuore dell’Europa, portando morte e devastazione, sconvolgendo equilibri ed alleanze geopolitiche fragili e causando “la crisi di profughi più grave e veloce in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale”, come ha sottolineato in un tweet l’Alto Commissario dell’ONU per i rifugiati, Filippo Grandi.
La guerra, mentre ultimo di scrivere quest’intervista (14 marzo alle ore 18:30), imperversa da 19 giorni, e secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters fino ad ora ci sono almeno 14.835 morti, 1930 feriti, almeno 2,8 milioni profughi, circa 1736 edifici distrutti e danni materiali per 119 miliardi di dollari.
Numeri crudi ed terribili che fotografano le dimensioni di questa guerra.
L’infodemia, che già avevamo visto all’opera nei primi mesi del 2020, allo scoppio della Pandemia da Covid19, è tornata più potente e pervasiva che mai: interi telegiornali nazionali dedicano ogni edizione quasi interamente al conflitto Russo-Ucraino ed i salotti televisivi e i talk più disparati si occupano esclusivamente della guerra, dove sedicenti “esperti di geopolitica” e simpatizzanti di Putin hanno scalzato i virologi dai loro scranni mediatici.
Chiunque, senza formazione specifica in storia o studio alcuno in geopolitica, si è arrogato il diritto di dover dire la sua sulle ragioni del conflitto, le questioni economiche e le responsabilità dell’Occidente, causando un indistinto chiacchiericcio che sovrasta ed inghiotte ogni speranza di realismo e ricerca della verità.
Noi di Smart Marketing, benché siamo un magazine verticale dedicato alla comunicazione, al marketing e ai social media, non potevamo come organo di stampa esimerci dall’affrontare la questione, ma abbiamo cercato di farlo senza urlare e cercando noi per primi di comprendere la questione.
Per aiutarci a dipanare questa intricata matassa di informazioni, notizie e fake che si rincorrono ed ammassano abbiamo chiesto aiuto ad un vero esperto: il prof. Silvio Labbate, docente di Storia Contemporanea all’Università del Salento ed esperto in Storia delle relazioni internazionali, che avevamo già intervistato nel 2020 in merito agli scenari geopolitici dopo la prima ondata della pandemia di Covid19.
Sembra che la guerra scoppiata il 24 febbraio scorso fra l’Ucraina e la Russia abbia colto tutti di sorpresa, invece la crisi fra questi due Paesi risale al 2014 e riguardava lo status della Crimea e della regione del Donbass e la possibile adesione dell’Ucraina alla NATO. Come mai l’Unione Europea, la NATO e l’Occidente più in generale hanno sottovalutato le ripetute minacce di Vladimir Putin?
Prima di rispondere a questa domanda devo specificare che non sono un esperto di questioni russo-ucraine. Inoltre, da storico baso le mie valutazioni sulla scorta di documentazione che, evidentemente, ad oggi non è disponibile. A ogni modo, pur rimandando le sentenze definitive ai posteri, mi pare evidente che la debolezza dell’Occidente abbia giocato un ruolo importante nelle scelte di Putin. Ormai è da tempo che gli statunitensi stanno portando avanti una politica di disimpegno in quelle aree considerate meno strategiche; l’abbandono repentino dell’Afghanistan rappresenta in questo senso l’esempio più eclatante. Ritornando alla triste attualità di questi giorni, invece, a dire il vero la NATO aveva da tempo ipotizzato un’aggressione di Mosca nel Donbass a sostegno dei russofili nelle province di Donetsk e Lugansk. Tuttavia la minaccia non è stata considerata reale e imminente; verrebbe da domandarsi il perché. Io credo che la risposta possa essere trovata in errori commessi nel passato recente dalla diplomazia americana e occidentale in genere. Mi vengono in mente le famose armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – mai scovate e molto probabilmente mai esistite – che hanno giustificato l’intervento armato e la deposizione del dittatore iracheno, scatenando il caos più totale nel paese e l’ascesa dell’IS – o ISIS, ancora oggi non sconfitto completamente. Ma anche l’intervento in Libia, messo in atto senza una ponderata analisi sul post-Gheddafi, o la gestione della guerra in Siria che i media nostrani hanno fatto cadere nell’oblio. Queste situazioni – come tante altre – hanno verosimilmente avuto un peso, da una parte nel rendere difficile una scelta unanime e preventiva nel campo occidentale, dall’altra nell’alimentare in Putin la sensazione che la NATO non sarebbe intervenuta.
Ed a proposito di NATO e Occidente, ci sono responsabilità “estere” sul precipitare della crisi che ha portato alla guerra?
Quando ci si trova di fronte a un’aggressione del genere, con la violenza di questa portata contro la popolazione civile inerme, gli ospedali e i corridoi umanitari, non si può parlare di responsabilità esterne. Lo dico più chiaramente a scanso di equivoci: la Russia di Putin è l’unica responsabile di questo massacro. Detto questo, possiamo parlare di errori di valutazione del mondo occidentale e della NATO; si è sottovalutato il secolare senso di insicurezza dei Russi che parte almeno dalla campagna di Napoleone, passando dall’aggressione nazista della seconda guerra mondiale, la cosiddetta Operazione Barbarossa. Questi eventi hanno profondamente segnato la storia del popolo russo, fino alla volontà di creare zone cuscinetto lungo i propri confini. Del resto quale paese vorrebbe missili nemici lungo i propri confini? Gli stessi Stati Uniti reagirono fortemente nel 1962 a Cuba quando Mosca stava costruendo una base missilistica sull’isola caraibica. Il vero errore fu fatto dopo il 1991 con la caduta dell’URSS: la NATO, sorta in funzione antisovietica, non aveva più motivo di esistere; avrebbe dovuto trasformarsi in qualcosa di diverso e rispettare l’impegno verbale preso con Gorbaciov di non allargarsi a Est. La stessa richiesta di Eltsin di entrare nell’Alleanza fu fatta cadere nel vuoto. Al contrario, la NATO ha continuato a esistere e ha accettato le richieste di adesione liberamente presentate – è importante sottolinearlo – dagli ex paesi dell’URSS. Basta vedere su una cartina questa evoluzione per rendersi conto che, eccezion fatta per la Bielorussia – stretta alleata di Mosca – l’Ucraina rappresenti di fatto l’ultimo Stato dell’area non appartenente all’Organizzazione con sede a Bruxelles. Ed è proprio attraverso la pianeggiante terra ucraina che sono avvenute le principali invasioni contro la Russia nel passato. Infine, non posso esimermi dal constatare come la NATO e il mondo occidentale abbiano prima armato – e continuano a farlo – e poi abbandonato l’Ucraina nel momento del bisogno; certo, un intervento diretto avrebbe scatenato la terza guerra mondiale, ma in questo modo si è mandato al massacro il popolo ucraino. Stesso dicasi per Zelensky che, incitando il popolo a resistere, sta mandando a morire la propria gente. Non sto dicendo che sia sbagliata la resistenza, ma ora sembra troppo tardi per altre soluzioni, quindi, sarebbe meglio evitare ulteriore spargimento di sangue. La cosa che si può dire con certezza è che siamo di fronte al fallimento più completo delle Nazioni Unite e del mondo delle relazioni internazionali così come lo conosciamo oggi; una riforma dell’ONU non è più rimandabile.
Che cosa sta succedendo e succederà, a guerra finita, all’economia russa, già fortemente penalizzata dalle sanzioni più numerose ed aspre della storia moderna e dall’isolamento con cui la stanno punendo i grandi brand e le Big Tech di internet?
Non è facile ipotizzare il dopo. In passato, contro ogni previsione, la Russia è sempre riuscita a trovare un nuovo equilibrio, sopravvivendo alle sanzioni. Di certo quelle imposte ora sono molto devastanti per l’economia russa, ma se l’obiettivo è quello di creare le condizioni per far cadere Putin e generare i presupposti per una successione al potere, temo non sarà così. La leadership putiniana è saldamente al potere e non penso possa essere minimamente scalfita; ogni scelta è condivisa con gli altri poteri e incontestabile. Chi si oppone viene internato, non c’è alternativa; a soffrirne di più, quindi, sarà ancora il popolo russo. Inoltre, sono già in atto tentativi per ovviare al mercato occidentale che potrebbero far superare – non senza conseguenze, ovvio – le sanzioni imposte. Il timore è quello della creazione di un polo russo-cinese alternativo all’Occidente. Oltre alle conseguenze economiche di questa scelta, bisognerebbe valutare anche quelle politiche: in passato contrapposizioni così forti hanno sempre portato a conflitti bellici. Quindi c’è da augurarsi che ciò non accada.
Che cosa significa e cosa implica per l’Europa e soprattutto per alcuni Paesi come Germania ed Italia la dipendenza dal gas e dal petrolio russo?
La dipendenza dalle fonti energetiche russe è aumentata sempre più nel corso degli ultimi decenni; tuttavia si è sviluppata nel pieno della guerra fredda e non ha mai rappresentato un problema concreto di condizionamento politico. Oggi se ne parla nel quadro delle sanzioni che si vogliono imporre a Mosca, ma non è facile trovare alternative valide immediate. Per quanto concerne l’Italia, dobbiamo registrare il fallimento di ogni Piano energetico nazionale sorto all’indomani della prima crisi petrolifera del 1973. A quasi cinquant’anni, quindi, non siamo stati capaci di diversificare concretamente le nostre fonti. Si riparla di rigassificatori, di raddoppio del tanto contestato TAP, di far ripartire gli impianti di estrazione del gas naturale abbandonati a sé stessi e addirittura di nucleare. Tutte queste scelte comportano tempo per essere attuate e non risolverebbero la dipendenza energetica del nostro paese. L’unica vera soluzione è rappresentata, a mio avviso, dall’energia alternativa; essa libererebbe davvero l’Italia e l’Europa da ogni dipendenza esterna, con ovvie ricadute positive sull’ambiente. Perché non dotare, per esempio, ogni edificio governativo – sia esso una scuola, una prefettura, un ufficio pubblico, ecc. – di impianti fotovoltaici e non investire concretamente risorse per ricerche sull’accumulo di energia per quei pochissimi giorni in cui la nostra terra non viene baciata dal sole? È chiaro che sto semplificando il problema, ma è tempo di scelte del genere e non di investimenti su altre forme di energia fossile.
In ultimo, cosa pensa dei vari Paesi che stanno cercando di fare da mediatori diplomatici per risolvere la crisi? Per primo ci ha provato il primo ministro di Israele Naftali Bennett, poi è toccato al presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan, ed adesso pare che sia la Cina, il principale alleato economico e politico della Russia, a voler fare la sua parte per risolvere il conflitto. Quali sono secondo lei le reali motivazioni e gli interessi in gioco?
Molti interlocutori si sono affacciati o si affacciano alla crisi per scopi politici interni; in Francia, per esempio, in aprile ci sono le elezioni presidenziali. La Cina, invece, è stata chiamata in causa dagli USA forse proprio per il timore della creazione di quel polo russo-cinese alternativo all’Occidente di cui parlavo prima. Sinceramente non vedo interlocutori politici realmente imparziali e con una tale forza contrattuale capace di fermare la guerra. Forse l’unico potrebbe essere Erdoğan, che ha interessi reali in un conflitto che si svolge di fronte al proprio paese, sul Mar Nero; tuttavia non dobbiamo dimenticare che la Turchia fa parte della NATO. Anche Israele, a mio avviso, non possiede le carte giuste. Gli interessi in gioco sono tanti e variano da paese a paese; resta la speranza che le molte pressioni esercitate riescano a convincere Putin a fermare questo massacro.
Silvio Labbate (Taranto, 1977), è ricercatore presso il Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’uomo dell’Università del Salento. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni internazionali presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Si è occupato di guerra fredda in Medio Oriente, con particolare riferimento alla questione dei petroldollari, ai problemi energetici nazionali e internazionali, al dialogo euro-arabo e alla politica estera dell’Italia agli inizi degli anni Ottanta. È autore dei volumi Il governo dell’energia. L’Italia dal petrolio al nucleare (1945-1975), Illusioni mediterranee: il dialogo euro-arabo e della curatela Al governo del cambiamento. L’Italia di Craxi tra rinnovamento e obiettivi mancati; ha scritto saggi per diverse riviste internazionali, fra cui «Ventunesimo Secolo», «Nuova Rivista Storica», «Storia e problemi contemporanei», «European Review of History», «Journal of European Integration History», «Middle Eastern Studies», «The International History Review» e «Meridiana».
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