27 gennaio 1945: l’Armata Rossa entra nella città di Auschwitz, scopre il vicino campo di concentramento e libera i superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazifascista. Quel giorno si capì che la minaccia nazi-fascista era stata definitivamente annientata. Di lì a poco, infatti, ci sarebbe stata la resa. E l’Italia aveva già, da un anno e mezzo, cambiato “casacca”. L’impresa delle truppe sovietiche, in appoggio agli alleati, rimane il simbolo della Liberazione dall’oppressore nazista, tanto che oggi si festeggia ogni 27 gennaio la “Giornata della Memoria”.
Da quel giorno nacque la comune voglia di raccontare gli scempi della guerra, descritta in maniera così deliziosa da Eduardo De Filippo, nel suo capolavoro, “Napoli milionaria”(1950). La penna artistica del grande Eduardo sintetizza alla perfezione il sentimento di rinascita del popolo italiano. La voglia di ricostruire, la voglia di raccontare gli scempi della guerra, la voglia di costruire un mondo migliore per i propri figli. L’alba di un giorno nuovo, la speranza di una ricchezza d’animo e di una stima reciproca ormai persa. La speranza, il senso della commedia stessa è un messaggio che Eduardo, dapprima rivolge alla sua Napoli ma che poi varca il confine, arriva al mondo, a tutti coloro che hanno subìto e che aspettano che passi la notte. E poi arriva la Liberazione, la gioia della Liberazione e della ritrovata libertà.
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Momenti di storia patria commoventi, ma che scaturiscono dal bisogno di consegnare ai posteri testimonianze di quella assurda storia di autodistruzione dell’uomo. La gioia della Liberazione era strettamente collegata alle deportazioni di ebrei nei campi di sterminio e dei tanti cari impegnati in una guerra del quale i soldati stessi non ne capivano il senso: era insomma l’altra faccia della stessa medaglia.
Questo sentimento antiretorico del soldato nazionale, comune a tanti, anzi a tantissimi, venne evidenziato per primo da Macario, nel film “Come persi la guerra”, che attraverso le traversie di un povero soldatino, farsesche ma ancorate alla tragedia di un decennio di guerre, costituiscono il lievito, per parlare per la prima volta in maniera realistica del vero sentimento delle truppe. In un breve dialogo Macario e Nando Bruno definiscono l’insensatezza e l’inutilità delle guerre, meglio di qualunque trattato sociologico sulla seconda guerra mondiale. “A me nessuno m’ha interrogato se volevo ‘fa la guera o no” dice Nando Bruno: “E da te ci sono venuti mai?”. “No, mai”, risponde Macario. “E allora mettete a sede’ e aspetta che finisca la guera. L’hanno voluta? Se la sbrighino tra di loro. Chi rompe paga”. E Macario: “Si, ma i cocci sono i nostri”. Quei cocci, nel film, sono messi in conto a tutti i belligeranti, da Hitler a Mussolini.
Per la prima volta viene messa da parte la solita storia del soldato eroe per forza. Una carica di realismo che conquista il cinema italiano. Così come appare simbolica, struggente oltre ogni modo, la corsa della Magnani, dietro un camion, mentre i tedeschi stanno deportando il marito, nel film “Roma città aperta”. Il simbolo cinematografico della tragedia della guerra, di tante donne e mamme, che hanno perso mariti e figli diventa Nannarella nazionale, che si fa carico di tutte le sofferenze delle donne italiane, in una sola terribile scena, entrata nella storia del cinema mondiale. Tanto commovente da ispirare un ritratto al poeta Giacomo Ungaretti: “Anna, ti ho sentito gridare Francesco dietro un camion e non ti ho più dimenticato”.
Da qui nasce la voglia di rivalsa del popolo italiano, stanco dell’oppressore nazista, volenteroso di ricostruire il Paese, di perseguire ideali di libertà, rispetto, uguaglianza, democrazia. Quindi si arma e si unisce per cacciare l’oppressore nazista. Nel film “Tutti a casa”, Sordi ritorna a casa sua a Napoli, in seguito all’armistizio dell’8 settembre, decide da che parte stare e comincia a sparare contro i tedeschi: sono le quattro giornate di Napoli, quelle dal 24 settembre al 28 settembre 1943, quella ribellione del popolo napoletano che portò alla liberazione della città partenopea. Il moto di ribellione di una città diviene il moto di ribellione di un Paese intero, di un continente intero. Si attende la Liberazione ovunque, anche nei campi di sterminio, dove la povera gente continua a morire.
Il film Premio Oscar “La vita è bella”, getta la luce sulla vita nei campi di sterminio e consegna un impatto visivo di straordinario effetto, quale può essere il cinema, alle nuove generazioni, affinché non dimentichino, quello che hanno appreso sui libri di scuola o dalle testimonianze dei nonni che l’hanno vissuta. Quello de “La vita è bella” e di Roberto Benigni, è un ritratto struggente di un padre e di un figlio piccolo, al quale cerca in tutti i modi di tenergli nascosto le assurde e terribili atrocità dei campi di concentramento e dei nazisti.
PER APPROFONDIRE:
Quello che oggi è il senso della “Giornata della Memoria”, ovvero ricordare alle nuove generazioni, il momento, forse più terribile della storia dell’umanità, la pazzia di menti malate, deviate dalla smania di potere, rose dalla bramosia di ricchezza, per cercare di non compiere gli stessi errori. E il cinema nel suo piccolo, come specchio della società, come educatore alla coscienza visiva e critica, nel corso degli anni ha saputo esplicare il suo compito in maniera egregia. Dal Neorealismo ai tempi attuali. Dal cinema nazionale a quello americano, dove Steven Spielberg, nel 1992, firma “Schindler’s List”, il più grande film della storia del cinema mondiale, dedicato alla tragedia più orribile e assurda del Novecento, la Shoah. Film concepito e costruito per essere definitivo, come memoria, opera d’arte e documento, in un contesto di agghiacciante precisione.