Prima della rivoluzione digitale, c’è stato un tempo in cui l’attenzione era qualcosa di esclusivo. Non c’erano mille canali televisivi, non c’erano i social, non c’erano milioni di notifiche, non c’erano le email per come le conosciamo oggi, non c’erano miliardi di contenuti, non c’erano gli smartphone, etc.
I media erano contenuti, i palinsesti erano definiti, la direzionalità era univoca. Avevamo solo un telecomando con il quale poter scegliere di guardare qualche canale e nulla più. L’atto più estremo che potevamo fare era quello di spegnere la televisione, consci che la nostra vita sarebbe continuata ugualmente senza ripercussioni. Vivevamo nel mondo fisico. Oggi, invece, come ha affermato il professore Luciano Floridi, la nostra vita è onlife, ossia la dimensione analogica e quella digitale sono fuse. E questa è una considerazione che, tra l’altro, riesce a fare chi in quel mondo analogico ci è nato perché, chi è nato dal 2000 in poi, quella dimensione non sa nemmeno cosa sia.
Ma in quel tempo, e non parlo di mille anni fa ma solo di una trentina, tutto era più lento e si aveva il modo di creare legami affettivi con brand, personaggi televisivi e del cinema, etc., che oggi è impossibile replicare. Persino riguardare le pubblicità di quell’epoca porta a sintonizzarci con certi tipi di sentimenti nostalgici. Il “binge watching” non esisteva (o quasi), ossia guardare più episodi consecutivamente e senza sosta, e avevamo così la possibilità di affezionarci poco alla volta alle storie e ai suoi interpreti. Pensaci, prima si guardavano le serie tv (ops, telefilm), oggi si consumano. Gran bella differenza.
“Il potere della TV lo si vede in azione ogni qualvolta che un consumatore americano acquista una confezione di cereali per la colazione. Per uno spot pubblicitario che ha visto tanti anni fa, è disposto ancora oggi a spendere di più per quella confezione di corn flakes o riso soffiato. […] Naturalmente il fenomeno non riguarda soltanto i marchi in vendita nei supermercati, ma interessava anche i nomi come John Hancock e Merrill Lynch, Prudential, Archer Daniels Midland, Jeep e persino Ronald Regan. Grandi nomi e grandi idee che hanno avuto un impatto enorme sulla nostra vita”. (Seth Godin in “La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone”, edito da Sperling & Kupfer).
Così accade che quando scompare un personaggio come Chandler Bing di Friends, interpretato dall’attore Matthew Perry, sentiamo un vuoto molto profondo e un reale senso di dispiacere. Come se fosse mancata una persona a noi cara. Come se fosse mancato un amico, uno di noi. Numerosi sono, infatti, i post e i messaggi social per ricordare un attore che si fatica a separare dal personaggio e che, dalla notorietà ricevuta proprio da quel personaggio, lui stesso forse non riusciva a separarsi a sua volta.
Non credo che andando avanti negli anni potremo assistere a qualcosa di analogo. Oggi si può diventare noti, anche molto noti, e rilevanti per una nicchia. Si può raggiungere un grande pubblico molto velocemente. Ma tutto è oltremodo frammentato. E diventare iconici è senza dubbio molto più difficile. Direi quasi impossibile. E’, insieme, l’inizio e la fine di un’epoca.