Il cinema italiano si può dire che sia morto e risorto tante volte, e ogni volta dalle sue ceneri ha saputo riemergere con sempre maggiore vigore e forza creativa. Quello che oggi vi voglio narrare è la prima storica rinascita che ha visto per protagonista, l’allora giovanissimo cinema italiano.
Dobbiamo andare davvero, parecchio indietro nel tempo, quasi agli albori del cinema, quando nel solo decennio 1909-1919 in Italia si realizzano ben 1525 pellicole. Era, chiaramente, il periodo del glorioso muto, che dagli anni ’20 comincerà a mostrare la corda. Infatti, almeno fino agli anni immediatamente successivi alla fine della Prima Guerra mondiale, l’industria cinematografica italiana era molto attiva, e dato molto curioso, quello italiano era un cinema muto che aveva la DONNA, come suo punto focale. Il divismo femminile nasce proprio in Italia negli anni 10 e gli eroi del grande schermo erano proprio esponenti del gentil sesso: Lyda Borelli, Pina Menichelli, Francesca Bertini, Leda Gys, Soava Galloni solo per citarne alcune. Queste attrici rappresentavano donne forti, coraggiose, dignitose, tutte caratteristiche in embrione, di quelle che renderanno immortale Anna Magnani, un ventennio dopo e con un sonoro in più.
Vennero poi gli anni ’20, quando a causa della concorrenza hollywoodiana, la produzione italiana si arresta completamente. Per cui attori, registi e manodopera specializzata si mettono al servizio di case statunitensi e tedesche. Nel 1923, ad esempio, la Cines cessa ogni attività con le riprese di una versione di Ben Hur, produzione americana girata nei suoi stabilimenti romani. Negli altri paesi, intanto, si fanno enormi progressi grazie a investimenti economici negli impianti produttivi.
Venne poi l’avvento del sonoro, a fine anni ’20, che manda in crisi tutte le cinematografie, compresa quella italiana, già ampiamente provata dalla scarsità di mezzi e anche dal fatto che le maggiori dive degli anni ’10, per una ragione o per l’altra si erano tutte ritirate dal grande schermo. Non c’erano neanche artisti in grado di competere con l’eco e la fama derivanti dai maggiori attori d’oltreoceano: Charlie Chaplin, Buster Keaton, Stanlio & Ollio, Rodolfo Valentino, che per un’appendicite sarebbe morto nel 1926. Dicevamo dell’avvento del sonoro, avvenuto nel 1927 negli Usa, con “Il cantante di Jazz”, di Alan Crosland. Dunque gli impianti devono essere necessariamente modificati, con gran dispendio economico, per evitare di rimanere in posizione arretrata rispetto a chi può investire nelle nuove apparecchiature.
Il sonoro provoca, indirettamente, anche la fine delle tante piccole ma floride manifatture cinematografiche fondate a Napoli nei primi vent’anni del ‘900. Vesuvio Film, Dora Film, Napoli Film, Eliocinegrafica, Tina Film, Miramare Film, e tante altre case di produzione, già vessate dalla censura di regime – contraria alle tematiche popolari e folkloristiche predilette dalle produzioni partenopee, quasi esclusivamente fondate sulla produzione di film tratti da celebri canzoni dialettali – sono costrette a chiudere.
Gli unici film italiani degli anni ’20 erano quelli in costume, infatti la produzione nazionale continuava a muoversi sui rodati binari della letteratura popolare, del feuilleton, del teatro e degli eroi forzuti, senza affrontare il necessario ricambio. In quest’ottica di progressivo decadimento, gli unici due esempi, che un po’ si elevano dalla mediocrità del periodo, sono Maciste all’inferno, di Guido Brignone; e Gli ultimi giorni di Pompei, di Carmine Gallone ed Amleto Palermi, entrambi del 1926. Niente di particolarmente significativo, mancava in pratica la manodopera attoriale al cinematografo.
E qui ci ricolleghiamo all’incipit dell’articolo, cioè che dalle sue ceneri il cinema italiano ha saputo sempre risollevarsi e splendere di nuova luce. L’avvento del sonoro, nonostante la chiusura delle numerose case di produzione, dà proprio modo al regime fascista di interessarsi attivamente al cinematografo, finendo per rilanciare la nostra produzione cinematografica. Certo, probabilmente non fu un rilancio, che dai “quartieri alti” avvenne per puro amore dell’arte, ma fu piuttosto diretto dalla consapevolezza che il cinema italiano potesse essere molto importante nella gestione del consenso sociale. D’altronde, e non si fatica a credere a ciò, data la politica accentratrice del governo mussoliniano, il regime diventerà l’unico finanziatore possibile dell’industria cinematografica, suggellata con la costruzione, nel 1937 di Cinecittà, in aperta sfida agli studios di Hollywood; e ancora prima con la fondazione del più antico Festival del Cinema della storia, ovvero quello di Venezia, che ebbe la luce nel 1932.
L’Italia, negli anni ’30, ha quindi un cinema di regime. La censura presta molta attenzione alle storie che vengono portate sullo schermo, impone autori e attori ma, soprattutto, strumentalizza il mezzo cinematografico a scopi di propaganda politica, bellica ed espansionistica. Tutte queste limitazioni imposte dal regime, porteranno all’assoluto divieto di qualsiasi rappresentazione negativa dell’Italia contemporanea. L’artificialità di tale tipo di cinema venne crescendo con gli anni, ed assunse il nome di cinema dei “telefoni bianchi”, un particolare tipo di commedie brillanti, girati quasi esclusivamente in interni e privo di qualunque riferimento alla realtà storica del periodo. La stagione interessa un periodo di tempo relativamente breve, dalla seconda metà degli anni ‘30 alla caduta del fascismo. Il riferimento ai telefoni di colore bianco (all’epoca un segno di benessere sociale) indica fin da subito i caratteri di questo cinema che portano al rifiuto di qualunque problematica sociale, ponendo al centro della scena esili commedie sentimentali. Tali commedie conoscono un effimero successo negli anni in cui il fallimento delle promesse del fascismo si fa sempre più evidente.
Se da un lato il regime con la censura impone un tipo di cinema abulico e irreale; dall’altro autori come Mario Camerini, Mario Mattoli, insieme agli umoristi dissacranti del Marc’Aurelio, dal quale nacquero maestri come Monicelli e Fellini, beffano con intelligenza e astuzia il regime. Le ambientazioni piccolo-borghesi narrate in commedie popolari come Il cappello a tre punte, Il signor Max o Imputato, alzatevi! rivelano le speranze e i sogni collettivi della società italiana, per quelli che saranno piccolissimi esempi di realismo, ancora allo stato embrionale. Lo stesso realismo che poi, qualche anno dopo il maestro dei maestri Vittorio De Sica, farà suo, regalando al mondo gli squarci di poesia della poetica neorealista.
Insomma, la prima rinascita del cinema italiano, pur nata principalmente per puri calcoli di interesse politico, sarà in grado di distaccarsi da quest’ombra, costruendosi una propria autonomia ed una propria identità. E farà il tutto rinascendo una seconda volta, al termine della Seconda Guerra mondiale, esattamente come lo farà il nostro esausto e distrutto Paese.
Il primo segnale di ciò che renderà il cinema italiano il più grande del mondo, ovvero la sua assoluta e unica capacità di parlare di noi stessi, di analizzare quello che siamo, con i tanti vizi e le poche virtù, che accompagnano da sempre il nostro, in fondo, amato Paese.
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