“Il linguaggio persuasorio come strumento della pubblicità e della politica” è il titolo della mia tesi di laurea triennale in Scienze della Comunicazione (o delle Merendine), come la chiama ancora qualche buontempone.
Influenzato da testi sacri come “I persuasori occulti” di Vance Packard e “Psicologia delle folle” di Gustave Le Bon, in quel lavoro partivo da assunti un filino apocalittici, come il mio relatore – lo ricordo ancora – esordì in fase di presentazione della tesi, per poi arrivare a conclusioni più morbide come, alla fine del suo discorso, lo stesso relatore riconobbe.
In pratica, durante la scrittura, avevo abbandonato pian piano le convinzioni derivanti dall’affascinante (almeno per il me ventenne) teoria del proiettile magico (ossia, che i messaggi che riceviamo uniformemente dai media producono reazioni dirette) per giungere all’idea che, tra un messaggio pubblicitario e il successivo comportamento delle persone (acquisto o preferenza di voto che sia), non ci fosse poi un collegamento così diretto. In altre parole, ero arrivato ad affermare che le persone, nel tempo, erano diventate capaci di riconoscere questa tipologia di comunicazione e che avessero raggiunto (almeno in parte) un certo grado di consapevolezza, sviluppando degli “anticorpi”.
Da allora, tutto è cambiato.
Correva l’anno 2008: Obama veniva eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, la Pellegrini vinceva il primo oro olimpico femminile, Clemente Mastella si dimetteva da Ministro della Giustizia e ritirava la fiducia al Governo Prodi II e, cosa che ci interessa maggiormente in questa sede, Google lanciava Android.
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L’obiettivo della pubblicità è sempre lo stesso: coinvolgere, persuadere, vendere. Il come lo si fa ed il perché lo si fa, però, tutta la differenza del mondo.
Ricordo che parlavo di mass media, mentre internet era pressoché agli albori e i social erano ben distanti da come li conosciamo oggi. La letteratura, come si dice in questi casi, era più incentrata sulla vecchia e cara televisione come mezzo di comunicazione onnipresente, che su tutto il resto.
Ciò che è rimasta immutata, è la mia passione per la comunicazione e la pubblicità.
Nel tempo ho continuato a studiarla, a cercare di analizzarne l’evoluzione e, non a caso, il mensile sul quale stai leggendo questo editoriale (che ha ormai 10 anni di storia) nasce proprio da quella volontà.
La comunicazione promozionale è cambiata, gli stili di vita sono cambiati e le modalità di fruizioni dei contenuti sono cambiate. A pensarci bene, dovrei parlare di rivoluzione piuttosto che di evoluzione. Sono comparse “nuove” espressioni come “call to action” o “storytelling” e la pubblicità si è resa ancora una volta flessibile ai vari format-i.
L’obiettivo è pressoché rimasto lo stesso: coinvolgere, persuadere, vendere. Il come lo si fa ed il perché lo si fa, però, tutta la differenza del mondo. Si può mentire, manipolare, far sentire a disagio gli altri, o si può lavorare – bene – sulle buone storie, su i messaggi etici (civili, direbbe qualcuno). Si è fatta strada insomma, un po’ a fatica, una comunicazione pubblicitaria capace non di distorcere, ma di avere un impatto positivo sulle comunità, capace di creare relazioni e comportamenti consapevoli.
Mi direte: “è fantascienza”. Vi rispondo: “si può fare”. A partire dalle parole che scegliamo, dal significato che le diamo. Anche questa è l’Arte della Pubblicità.
Ivan Zorico