L’Italia scopre lo smart working. Non sarebbe stato meglio farlo prima?

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L’Italia scopre lo smart working. Non sarebbe stato meglio farlo prima?

Sembra che nelle ultime settimane le aziende italiane abbiano scoperto lo smart working. E lo hanno fatto nella maniera peggiore: in stato di emergenza. Si, forse è esagerato parlare di scoperta, è stata più una rivalutazione e purtroppo anche una necessità.

Alcune (ancora troppo poche) aziende erano già abituate ad uno “smart working moderato”, spesso con un numero di giorni limitato mensilmente, o da fare solo in casi particolari; ma nonostante tutto, nonostante la legge lo consenta ormai da anni… in Italia siamo sempre un po’ restii al lavoro agile. Non si sa bene perchè, forse perchè noi italiani ci fidiamo poco degli altri e l’idea di non avere dipendenti e collaboratori in sede, da poter controllare in ogni momento, non ci rassicura. Forse siamo troppo tradizionalisti e l’idea del lavoro da casa, o da Starbucks come nei film o dalla spiaggia come i nomadi digitali o da dove vuoi… non ci piace, va oltre la nostra forma mentis e la nostra idea di lavoro.

Insomma non è lavoro se non è in sede, non è lavoro se non sei alla scrivania accanto o al piano superiore, non è lavoro se sei tu a decidere dove svolgerlo. In poche parole: siamo antichi! Guardiamo agli Stati Uniti con ammirazione, alle loro startup che nascono nei garage, alle loro modalità all’avanguardia di fare impresa, ma se dobbiamo fare un passo avanti verso il lavoro agile no, perchè poi sarebbe troppo difficile farne uno indietro.

E quindi succede che un bel giorno, anzi un brutto giorno, scoppia un’emergenza e in molte città del nord Italia non si può più andare in ufficio, ma non si può nemmeno non lavorare.

E quindi? …E quindi Smart working!

Anche per chi lo ha snobbato per anni, anche per chi non ci crede, per chi preferisce avere un dipendente che chatta o fa acquisti su Amazon, ma alla scrivania di fronte.

Soltanto le aziende più all’avanguardia o alcune multinazionali e grandi gruppi oggi sono preparate allo smart working: hanno fatto dei tentativi in passato, si sono dotate di strumenti, di piattaforme che permettono di lavorare a distanza e anche in dinamiche di team, hanno studiato delle modalità condivise e che già funzionano. Per gli altri (e gli altri sono tanti, perchè, lo sappiamo, il panorama italiano è pieno di piccole e medie imprese) è tutto un “si fa quel che si può”.

Ed è un peccato, non perchè dobbiamo essere pronti a ogni emergenza, ma perchè se fossimo stati avvezzi allo smart working, in molti casi non sarebbe stato un problema (da un punto di vista lavorativo ed economico) nemmeno avere un’emergenza.

Per chi, come me, lavora nel mondo del digitale, lo smart working non è nulla di eccezionale o straordinario, anzi è la normalità; è una delle opzioni possibili che poco si differenzia dalle modalità lavorative tradizionali. Nel mondo della comunicazione online, e del digitale in generale, è più facile che in altri settori, questo è vero, ma siamo nel 2020 e se lo smart working fosse più diffuso aprirebbe tantissime opportunità, accorcerebbe le distanze, ci renderebbe più produttivi e potrebbe persino colmare il divario di opportunità tra nord e sud. Lo sostengo da anni e devo ammettere che a primo impatto, quando ho sentito dello smart working diffuso, anche se in una situazione di emergenza, ne sono stata contenta.

Per mia abitudine cerco di trovare il lato positivo anche nelle situazioni negative e in questo caso mi sono subito detta che questa brutta emergenza, che sta preoccupando tutti, modificando le nostre abitudini e mettendo alla prova il nostro sistema economico, forse avrebbe potuto avere questo effetto positivo: farci provare seriamente lo smart working, cotringerci a un test che va al di là della nostra volontà, e mostrare così che può funzionare, che può essere una realtà diffusa. Questo “tentativo violento” potrebbe persino portarci a fare quei passi avanti che un po’ ci spaventano, adottare il lavoro agile anche dopo, nella normalità, tra qualche settimana e per i prossimi anni.

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L’iter per avviare lo smart working negli scorsi giorni è stato semplificato proprio per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Grazie a uno dei decreti attuativi del 23 Febbraio, per le aziende, in questo momento, non è necessario seguire tutti gli adempimenti e i tempi tecnici previsti dalla legge italiana ed è possibile iniziare subito. Benissimo! Ma al di là di un problema contrattuale o legislativo c’è da considerare che non si diventa abili smart worker dall’oggi al domani, senza conoscere gli  strumenti per comunicare quotidianamente come se si fosse nello stesso ufficio, o per fare una riunione di gruppo a distanza o per condividere documenti o ancora suddividere i ruoli in un team…. e così via. Tutto è possibile ormai, ma ci vuole anche tempo per abituarsi, testare, trovare il modo migliore in base alle caratteristiche e le specificità dell’azienda in questione.

Le aziende già abituate allo smart working oggi si trovano ad avere un vantaggio non da poco, sono in grado di proseguire con le attività a pieno ritmo anche in queste settimane difficili; chi invece procede per tentativi impacciati sta risentendo maggiormente di queste giornate di quasi inattività che potrebbe costare cara. In ogni caso tutti si stanno adattando, magari stanno improvvisando e mi auguro che procedendo per tentantivi si possano accorgere che in fondo… può funzionare.

Dunque io vedo un’opportunità: una situazione, seppur di disagio, che può aprirci gli occhi sulle potenzialità dello smart working fatto bene.

Il rischio (ciò che temo) è che si associ lo smart working alle situazioni di emergenza, ai periodi “sfortunati”.  Lo sappiamo, l’ansia da contagio ci sta spingendo a fare cose che solitamente non faremmo: scorte di disinfettanti e mascherine, spese eccessive al supermercato… e mi auguro di non dover annoverare anche lo smart working tra queste.

Sarebbe un peccato percepirla come una “modalità di lavoro da quarantena”, vediamola invece come una vera opportunità. Un’opportunità che abbiamo avuto modo di testare in una situazione poco fortunata, ma che potrebbe essere ricordata come quella che ha avuto il pregio di aver aperto la mente di tante realtà aziendali.

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