Il meeting del 31 gennaio/1 febbraio della FED non sarebbe dovuto essere un evento in grado di influenzare i mercati. Anche attendersi una Janet Yellen in grande spolvero, in stile aggressivo era evidentemente impensabile. Non fosse altro perché della politica fiscale di Trump non si conosce ancora nulla.
A Washington sono perfettamente consci dell’ottimismo sia del livello di confidenza dei consumatori che delle aziende, e osservano una crescita e un tasso di inflazione leggermente più sostenuto di quanto previsto. Tutto questo, insieme con l’esigenza di dover “governare” le spese pazze della nuova amministrazione Trump, spinge tuttavia la FED ad essere cautelarmente sull’attesa. Infatti benché la maggior parte dei votanti preveda 3 rialzi nel 2017, sembra essere diventato molto più importante valutare le misure e gli effetti della nuova politica fiscale prima di potersi sbilanciare sulla velocità dei rialzi.
Si è avuta l’impressione che siamo giunti in un momento storico in cui alcuni “Tweet” contino di più delle autorità monetarie. Ed ecco infatti che in Europa, il ministro delle finanze tedesco W. Schäuble si senta in dovere di ribadire il suo diniego verso politiche monetarie troppo espansive. Un euro troppo debole aiuta la Germania nelle sue esportazioni era stato l’attacco di Trump. Anche la BOJ, accusata di manipolare la sua valuta, ha reagito mostrando i muscoli andando a comprare “carta” a 10 anni, in modo da portare il rendimento allo 0.11% rispetto allo 0.15%.
Siamo in piena guerra valutaria. Ne avevamo parlato proprio nello scorso numero: fare attenzione alla volatilità che proviene dai cambi e dai tassi. Quest’ultima è in grado di spaventare ancora di più rispetto alla volatilità dell’azionario. L’investitore medio non è pronto ad accettare incertezza sui bond e i modelli di Risk Parity non la concepiscono neanche perché abituati a modellare e prendere in considerazione livelli di volatilità ben inferiori.
La lettura che si può dare a questo atteggiamento attendista della Fed ricade evidentemente nella propensione di Trump a far discutere di protezionismo, di divieti, attacchi ad istituzioni indipendenti ed esterne agli Stati Uniti. Una chiara volontà di spostare l’attenzione fuori dai propri confini, evidenziando marcatamente possibili detrattori di ricchezza, eventuali capri espiatori. Restiamo pertanto tutti in attesa di valutare quanto promesso in materia fiscale e intanto osserviamo un altro indicatore dello stato di salute degli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione, come evidenziato dal report sul lavoro di venerdì scorso, si attesta al 4.8% rispetto al 4.7% del dato precedente. Un rialzo giustificabile dall’aumento registrato nel numero di persone entrate nella forza lavoro.
Buona settimana finanziaria a tutti.
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