Le elezioni in Gran Bretagna consegnano un parlamento senza una maggioranza assoluta per la May. La fotografia che ne segue è addirittura più goffa nel temerario tentativo di creare un governo facendo leva sull’alleanza con il Dup nordirlandese. Traduciamo tutto in finanza e proviamo a distinguere tra effetti di breve e di medio/lungo termine.
Nell’immediato abbiamo visto solo un indebolimento della sterlina; per contro il Gilt si è apprezzato e la borsa inglese ha ringraziato un Pound più debole e il relativo vantaggio competitivo verso l’estero.
E sul medio/lungo periodo? Presumibilmente la valuta inglese potrà ancora soffrire l’eventuale sostegno monetario della Bank of England. Il Gilt dapprima dovrebbe beneficiare di questo atteggiamento espansivo così come i titoli più esposti all’export. Tuttavia il nodo della Brexit, le negoziazioni divenute ora più complicate alla luce del risultato elettorale, incideranno sull’andamento delle variabili in futuro. Mi aspetto che le aziende locali, strettamente dipendenti dal prodotto interno lordo, dall’inflazione in aumento, tenderanno a soffrire. Il nuovo governo, pur non sfociando in privatizzazioni ridicole sponsorizzate da Corbyn & Co., sarà tenuto a dare supporto fiscale al proprio tessuto economico, sostenendolo, accompagnandolo verso il nuovo accordo con l’UE. A questo punto, faccio fatica ad identificare il Gilt nell’espressione massima del safe haven, così come ritengo che l’andamento delle borse perda quella correlazione benefica con il Pound. Chiaramente il primo mercato a testare la bontà dell’economia inglese sarà quello delle piccole imprese. L’indice Ftse250 sarà, con elevata probabilità, molto più reattivo rispetto al Ftse100.
Ma mentre si disquisiva sulla portata politica di queste elezioni, declassandola ormai ad evento locale, nel silenzio più assordante l’America, nella giornata di venerdì ci regala il fragore di un tonfo. Chiaro questa volta, capace pur nella perenne rotazione settoriale, di azzerare i guadagni visti in apertura delle borse. È la giornata in cui i finanziari, ma soprattutto gli energetici fanno la parte da leoni. Ma torniamo al roboante tonfo. Le 5 aziende che senza volatilità alcuna avevano tirato su gli indici Americani si sono “girate” con violenza. Parliamo delle FAAMG, acronimo che racchiude marchi noti come Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Google, che insieme pesano per il 13% dell’S&P, con una capitalizzazione complessiva di 2.723 billion di dollari. In realtà per quanto si possa guardare con preoccupazione questa prima avvisaglia di una potenziale bolla pronta quanto meno a ridimensionarsi, c’è da sottolineare che almeno per questi grandi gruppi non siamo nella stessa condizione che ha portato la bolla dei tecnologici del 2000 ad esplodere. Diverso è il livello di Cash flow che generano, così come valutazioni elevate ma non estreme.
Avevamo comunque più di una volta avvertito che l’ultima gamba del rally in corso sia da leggersi essenzialmente come eccesso di liquidità in circolazione. Possiamo nasconderci dietro “Reflation Trade, Trumpeconomics, momentum dei dati in Europa, ma la verità è che malgrado si parli di un intervento meno incisivo delle banche Centrali il 2017 è l’anno in cui i bilanci delle tre banche centrali (US, Giappone e Europa) hanno raggiunto il record di circa 14.000 billion di dollari.
Sono curioso di osservare la FED, chiamata a gestire il rialzo ormai scontato di Giugno con l’esigenza di calmierare i mercati. Mercoledì la Yellen scoprirà le sue carte e ancora non siamo entrati ufficialmente nell’estate, tipicamente una stagione in cui la liquidità dei mercati tende a decrescere e quel famoso effetto imbuto potrebbe essere esasperato.
Christian Zorico: LinkedIn Profile