L’idea iniziale di questa rubrica era quella di catturare quanti più spunti possibili dalla settimana appena trascorsa al fine di poter aver qualche strumento in più per affrontare quella seguente, per incontrare i mercati finanziari del prossimo futuro su un terreno meno ignoto. L’ambizione è sempre stata quella di poter catturare i movimenti di medio termine attraverso una lettura più puntuale del breve termine.
E allora veniamo a quanto accaduto nei giorni scorsi e in particolare soffermiamoci sulla price action dell’azionario e dei governativi. Doveva essere la settimana del fisco americano, in una settimana caratterizzata dal continuo flusso di informazioni provenienti dalla Francia chiamata alle urne ad Aprile.
E invece il Presidente Donald Trump che parla al popolo per l’ennesima volta e si rivolge pochissimo al mercato, non rappresenta un evento in grado di mutare l’euforia dei mercati azionari. Da un lato Trump è abile a procrastinare il momento in cui verrà valutata la nuova amministrazione e dall’alto i mercati attendono pazienti. E questa pazienza va letta in chiave economica, non fiscale. Inizia ad essere evidente che il rally dell’azionario abbia in sé qualcosa di non esplicitamente legata alle promesse di Trump. Probabilmente ne rappresenta un acceleratore, ma alla base resta l’ottimo andamento del primo trimestre in termini di dati macroeconomici e i buoni risultati aziendali.
Infine, la FED, che appare più aggressiva, si toglie dall’imbarazzante posizione che ha avuto sino ad ora di restare dietro la curva dei tassi e così, la Yellen, completa il lavoro svolto da altri governatori nel corso della settimana suffragando il rialzo di marzo come altamente possibile. È la parte a breve che ha reagito più fortemente, cosi come le aspettative di inflazione. Il breakeven a 2 anni che si impenna di più del 10 anni racconta una narrativa un po’ diversa rispetto all’inizio del reflation trade. La FED sembra abbia intenzione di controllare eventuali effetti distorsivi della nuova politica fiscale ed infatti è solo l’inflazione a breve che segnala ancora del potenziale upside.
Inoltre la componente più lunga governativa sembra offrire un messaggio di rinnovata cautela. Guardando l’inversione che si è avuta nello spread 30-2 anni (passato da 200 punti base verso la fine del 2016 agli attuali 175 punti base) si evince un rinnovato pessimismo che un po’ stona con la price action degli indici azionari.
E allora cosa succede all’azionario? Perché si continua a comprare equity malgrado sia decisamente caro? Una risposta è in quanto abbiamo detto poco fa: l’economia continua a macinare dei buoni numeri segno che i fondamentali sono ancora a supporto delle quotazioni aziendali e, dall’altro, abbiamo una Federal Reserve prontamente in grado di intervenire, ma al tempo stesso capace di influenzare maggiormente la parte a breve termine della curva US. Inoltre, tecnicamente gli investitori sostituiscono ad ogni nuovo massimo l’esposizione in singole azioni, attraverso call option out of the money. Il prezzo di questi strumenti è salito nelle ultime sessioni, segno che il mercato è disposto a pagare un premio più alto per non perdersi l’ultima coda del rally, ma al tempo stesso non ha voglia di restare investito nel sottostante.
Sebbene i segnali provenienti dall’azionario e dall’obbligazionario possano sembrare contrastanti, è anche vero che probabilmente l’investitore tipico dell’equity ha probabilmente letto in maniera esatta l’atteggiamento delle banche centrali comunque a supporto dei risky assets. Non è cambiato molto rispetto all’anno precedente. La liquidità resta ancora un fattore determinante e sebbene ci siano dei segnali di allerta, come gli spread sull’HY o sui bond emergenti ai minimi del 2014, bisogna stare molto attenti a mettersi contro un treno in corsa. Un occhio nello “Specchietto Retrovisore” e un occhio vigile davanti a noi per poter scendere, anche rocambolescamente da un treno che corre, e corre sempre più forte.
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