Al momento la riforma fiscale degli Stati Uniti, dagli effetti impressionanti (stando ai numerosi tweet di Trump), rappresenta il più importante tema macroeconomico, capace di catalizzare l’attenzione degli addetti ai lavori, dei mercati finanziari e giustamente dei tax payers che probabilmente dovranno fare i conti con un nuovo regime di tassazione e di servizi.
L’approvazione alla Camera dei Rappresentanti, del budget a favore della riforma fiscale, rappresenta un primo passaggio; cruciale, ma solo parziale. Si attende infatti l’approvazione da parte del Senato affinché l’iter del Congresso sia concluso e la nuova legge possa giungere tra le mani di Trump per la ratifica finale. In realtà il secondo passaggio è più che una mera procedura: la maggioranza è molto più risicata, potendo contare solo su due senatori repubblicani in più e la pianificazione del budget risulta parzialmente differente da quello votato dall’House.
E allora diamo uno sguardo a quanto succede sui mercati finanziari. Proviamo quanto meno a decifrarne gli effetti e ad analizzare eventuali comportamenti futuri in caso di approvazione finale. Innanzitutto, il trade che ha appoggiato Trump e tutte le sue promesse ha compiuto un anno proprio raggiungendo nuovi massimi. Un bell’anno per gli indici azionari con l’indice S&P 500 che si è apprezzato del 23% a partire dal 7 Novembre dell’anno precedente. Indipendentemente dalla narrativa di questo rialzo, se in parte motivata dai flussi, dall’enorme liquidità in circolazione, dai dati macro e micro a supporto, probabilmente la quota relativa al nuovo piano fiscale potrebbe essere già prezzata dal mercato. E allora senza sfociare in dietrologie o teatrini politici, diamo solo brevemente uno sguardo ai punti salienti della riforma e insieme facciamo qualche riflessione a voce alta.
Molto sommariamente a fronte di un taglio delle tasse sui profitti delle aziende, corrisponderà un carico fiscale più aspro sia indirettamente come taglio di servizi (Obamacare su tutti) sia diretto sulla classe media (200 mila dollari annui per famiglia, risparmiando, o meglio facendo risparmiare i contribuenti elitari che dichiarano un reddito superiore al milione di dollari. Tutto questo per sostenere, allocando risorse, la componente aziendale, ma solo a partire dal 2019. Un risparmio fiscale quindi che le imprese potranno godere non immediatamente e che in linea teorica dovrebbe stimolare i piani di investimento, lasciare aperta la porta per aumenti salariali e ingenerare un circolo benevolo e far incrementare attraverso nuovi e più cospicui flussi, le entrate dello Stato.
Eppure facciamo un paio di considerazioni, entrambe di natura scettica. Innanzitutto l’effetto posticipato del risparmio fiscale si pone l’obiettivo di spingere le aziende a nuovi investimenti. Al momento i Ceo di molti gruppi imprenditoriali non hanno manifestato una netta volontà di far seguire nuove spese a fronte del risparmio fiscale prospettato. E questo è il sentiment di uomini dell’economia reale, non di gente che guarda solo ad oscillazioni di prezzo delle attività finanziarie. E allora cerchiamo delle congruenze che ci vengono fornite dall’andamento di alcune variabili che bene ci spiegano il vero mood degli operatori di mercato. Se la riforma fiscale fosse largamente attesa come definitiva e se gli effetti sperati dovessero davvero manifestarsi ed essere già anticipati dal mercato, allora la curva dei Treasury non dovrebbe aver subito questo appiattimento degli ultimi mesi. Tutt’altro, anche in assenza di inflazione, con le sole stime di crescita del GDP e con un aumento del deficit chiaramente legato alla diminuzione delle entrate, dovremmo essere in presenza di un livello del decennale più prossimo al 3% che al 2%. Ed anche per quanto riguarda il biglietto verde, dovremmo assistere a molta più forza, anch’essa motivata da flussi finanziari in entrata dall’estero che ricercano bond e azioni americane, e da un’aspettativa i rendimenti che scontino una normalizzazione più rapida.
Invece, forse perché ancora le altre banche centrali continuano a supportare la liquidità, e la fame di rendimenti che ne deriva, porta a spingere la corsa verso i Treasury, forse perché si temono più effetti negativi di una riforma fiscale espansiva in questo frangente; la verità ultima è che gli investitori continuano a rifugiarsi nel safe haven. Si decantano sempre nuovi massimi borsistici eppure il “caro” in tutti i sensi Treasury viene sempre acquistato. E il dollaro anche in chiave relative con l’euro sembra aver perso forza relativa. Da qui in avanti, restiamo concentrati sull’approvazione dei contribuenti, vero termometro della bontà della riforma e insieme guardiamo anche da vicino tassi e valute.
Potrebbero raccontarci una storia più verosimile rispetto al mondo azionario.
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